IL FUTURO DEL LATINO STA ANCHE NEL DIGITALE

Alice Borgna è Ricercatore Universitario Senior (RTD-B) in Lingua e Letteratura Latina presso l’Università del Piemonte Orientale. È allieva di Giovanna Garbarino, sotto la cui guida si è formata all’Università di Torino. Negli anni, ha lavorato sulla prosa latina tardorepubblicana e imperiale, in particolare su Cicerone, Pompeo Trogo e Giustino. Si occupa inoltre di Digital Humanities e della loro applicazione alle discipline classiche nel quadro del progetto DigilibLT, la biblioteca digitale del latino tardo antico.

Prof.ssa Alice Borgna, Lei è tra i responsabili del progetto DigilibLT, biblioteca digitale del latino tardoantico: al tempo di Twitter e Facebook, quale ruolo per il latino?
La risposta potrà sembrare paradossale ma il ruolo del latino va riscoperto soprattutto al tempo di Twitter e Facebook. E pure di Instagram, aggiungerei, visto che le foto sono corredate di didascalie e commenti. Ma andiamo per gradi. Inutile nascondersi dietro un dito: è evidente che la vera domanda sul tavolo sia “a cosa serve oggi il latino?” ed è altrettanto evidente che per molti la risposta sia “assolutamente a nulla”. Il problema, tuttavia, non è tanto la risposta, ma la domanda. A cosa serve oggi imparare a contare, se tanto ormai le calcolatrici sono ovunque e mi basta scandire: “ehi Siri, quanto fa 14 x 758” per avere una risposta? A cosa serve oggi imparare le lingue straniere, quando ci sono i traduttori automatici? A cosa serve oggi andare a scuola guida e imparare il codice della strada, se tanto domani le macchine si guideranno da sole? Ma spingiamoci ancora più in là: a cosa serve oggi saper leggere, se Alexa (o qualsiasi altro assistente virtuale) può farlo per me? A questo punto l’unico sapere utile in futuro sarà una buona dizione, in modo che la tecnologia di turno possa decodificare la mia voce e rispondere al mio ordine. Sto esagerando, ma non troppo. Quel che voglio dire è che la suddivisione tra ciò che è utile (quindi buono e giusto) e ciò che è inutile (quindi da eliminare), iniziata anni fa col dito puntato contro quelle discipline che non trovano immediata applicazione tecnologica nel reale, è molto pericolosa in un mondo che evolve a una velocità così vorticosa che, nell’arco di due anni, oggetti imprescindibili diventano passato remoto. Rischiamo di fare la fine di Eta Beta. Per i lettori che non frequentano assiduamente Paperopoli e Topolinia, Eta Beta è l’amico di Topolino che viene dal futuro e parla una strana lingua in cui a ogni parola si aggiunge una “p”. La pragione di questo pvezzo ce la racconta lui pstesso in una pstoria uscita nel 2001, Pippo e il futuro troppo comodo, capolavoro di Augusto Macchetto disegnato da Gianfranco Soldati. Ci sarà una volta, dice Eta Beta, un tempo in cui la vita diventava ogni giorno meno faticosa: le scarpe camminavano da sole, per risparmiarci la fatica di scegliere dove andare. Ma anche le relazioni sociali venivano gestite con la tecnologia: troppa fatica uscire di casa per andare a mangiare la pizza con gli amici, quindi le persone si facevano sostituire da robot. Non parliamo poi di affaticarci a viaggiare, dato che grazie agli occhiali per la realtà aumentata si poteva visualizzare la neve in salotto. L’ultima fatica ad essere eliminata fu quella del parlare: le persone si stancavano troppo a emetter fiato e così così furono inventati sistemi automatici. Ad un certo punto, però, ci fu una reazione; l’umanità si svegliò dal torpore in cui era caduta e – affinché ciò non si ripetesse mai più – vennero rese obbligatorie una serie di “fatiche inutili”, tra cui mettere una “p” di fronte a ogni parola, monito contro la tentazione di usare la tecnologia solo per rendere la vita più comoda. Ogni pconsiderazione è psuperflua. Venendo al caso più specifico del latino, come possiamo ritenere inutile lo strumento che sta alla base dell’italiano, quando viviamo in una società dove tutto avviene in forma scritta? Forse non ce ne rendiamo pienamente conto, ma la società in cui viviamo è fondamentalmente una società della scrittura, in cui ci si fa sentire scrivendo e si viene giudicati anche per come lo scriviamo. Fino a vent’anni fa, una persona poteva uscire dalla scuola a 14, 19 o 24 anni con in mano il titolo di studio corrispettivo e per tutta la vita successiva non avere più occasione di utilizzare la scrittura in pubblico. Oggi, invece, la scrittura è parte integrante della nostra vita: messaggi, mail, espressione sui social e su internet, dove si può commentare praticamente ogni cosa, dalle notizie sui siti dei quotidiani, agli oggetti comprati su Amazon. Forse è la scrittura a mano a essere sempre più marginale, ma non la scrittura come atto. Senza contare che, spesso, a decidere se le nostre idee abbiano o meno diritto di cittadinanza è la correttezza grammaticale con cui sono espresse a stabilirlo. Pensiamo ai social, dove chi impugna l’arma spuntata di un italiano zoppicante, già in partenza si colloca in una condizione di svantaggio. “Torna a scuola, analfabeta!, “impara l’italiano!”: quante volte abbiamo letto una frase simile a commento di un messaggio con accenti e apostrofi fuori posto? E magari il contenuto era anche in parte condivisibile, magari era portatore di un’idea interessante… tuttavia, questa idea viene immediatamente dequalificata dalla forma scorretta. Ammettiamolo: una h mancante o un abuso di K tendono a veicolare un pregiudizio sull’autore del messaggio e, di conseguenza, anche sul contenuto e sul valore del messaggio che ci sta proponendo. Curioso, quindi, che nell’epoca che – forse più di ogni altra – affida la comunicazione di massa alla scrittura, e dove l’italiano spesso si dimostra un sapere che si possiede a fatica, non venga in mente che l’unica chiave in grado di aprire il forziere dell’italiano sia suo padre, il latino. Invece, il povero latino viene additato come “sapere inutile” e “perdita di tempo”. Questo accade anche perché si continua a giustificare la necessità del suo studio con ragioni che oggi hanno scarso appeal. Nè la soluzione può essere l’eliminazione dello studio della lingua, che va assolutamente salvaguardato. Va però cambiata la risposta alla domanda che studenti e famiglie oggi pongono in maniera più incalzante rispetto al passato: “perché nel 2020 dobbiamo studiare la lingua latina?” ovvero “perché nel 2020 devo scalare la montagna della lingua latina a mani nude, col rischio di prendermi una montagna di insufficienze ed essere rimandato a settembre, quando potrei dedicarmi a cose più utili come il cinese? Perché mi costringete a questa fatica, se dall’altro lato della montagna c’è una pratica funivia, e pure gratis? Perché non posso usare quella bella funivia, se lo scopo è semplicemente arrampicarsi in cima e ammirare il panorama?” Nella metafora, la funivia è rappresentata dalle traduzioni reperibili on line, mentre il guardare il panorama equivale a incontrare la civiltà letteraria latina, il cui fascino resta fortunatamente immutato. Fuor di metafora: continuare a proporre la possibilità di accedere direttamente ai testi per tramite della propria personale traduzione come punto di arrivo e scopo ultimo dell’apprendimento della lingua antica, è una proposta che, seppur affascinante e che nei decenni scorsi è stata il motore di centinaia di vocazioni allo studio universitario, oggi risulta ben poco comprensibile alla generazione nata e cresciuta con Google Translate in tasca. E non lo dico con spirito ostile nei confronti di questi ragazzi, anzi: credo che siamo noi a dover riconoscere il divario abissale che separa la nostra forma mentis da quella dei nativi digitali, per i quali – che ci piaccia o meno – il problema concettuale della traduzione è ampiamente superato. Con la funzione “fotocamera” di Google Translate vanno a Tokyo, oppure in Siberia, inquadrano il cartello appeso al muro della stazione e seppur in modo approssimato, lo decifrano. Nel caso del latino, Google Translate non funziona (e meno male), ma inutile negare l’evidente: la rete ha snaturato l’esercizio scolastico quotidiano, dato che con un clic si può scaricare qualsiasi traduzione, tratta da qualsiasi libro scolastico. Provare per credere. Non solo: anche lo studente motivato, che non va su internet per copiare la versione assegnata come compito, grazie ad Amazon e alla tecnologia degli e-book, con due clic può scaricarsi sul Kindle un paio di traduzioni d’autore e metterle a confronto. Vent’anni fa, tutto ciò era fantascienza, la traduzione istantanea era prerogativa del computerino che gli eroi dei cartoni animati portavano al polso, le traduzioni d’autore erano o chiuse nella biblioteca civica, oppure le si comprava (o meglio: le si ordinava e pazientemente le si aspettava) dal libraio. In quella realtà, la traduzione personale era la porta inevitabile da cui si doveva passare per entrare nel mondo della classicità, latina e greca. Da qui, due conseguenze: la prima che non pochi studenti, a forza di attraversare questa porta, iniziavano a prenderci gusto. La seconda, non meno importante, è questa: anche chi la attraversava male e con fatica, era comunque consapevole della necessità di questo passaggio. Oggi questa porta è stata abbattuta, sulla torre di Babele tutti riescono a comprendersi e il grande sogno della traduzione istantanea va verso la realizzazione. Questo dato non può non aver causato un profondo cambio di mentalità, soprattutto in chi non ha conosciuto il mondo di prima. Di conseguenza, continuare a difendere la necessità dello studio della lingua latina – studio imprescindibile e necessario, voglio dirlo forte e chiaro – ponendo come ragione principale il gusto che lo studente prova nell’accedere direttamente al testo, è una ragione debole, fragile, che si sgretola soprattutto nelle scuole diverse dal Liceo Classico. Non parliamo poi dell’Università, che ammassa un centinaio di principianti assoluti in una sola aula. E allora, come dicevo, dobbiamo cambiare non come si studia il latino o addirittura smettere di studiarlo, ma la risposta alla domanda perché studiare il latino. E questo perché trasversale, in grado di convincere studenti e famiglie, è qui davanti a noi, basta solo vederlo. Il latino va studiato perché risponde alla domanda di italiano delle persone, perché rappresenta l’unica funivia in grado di aiutare nella scalata dell’italiano. Non è un caso che da quando il latino è stato tolto dai programmi scolastici, il grado di comprensione dell’italiano sia colato a picco, un crollo che rende la nostra società più fragile e la nostra comunicazione reciproca molto difficile, basti solo pensare ai contrasti a cui tutti i giorni assistiamo tra chi – proprio sulla base di una conoscenza dell’italiano traballante – non è in grado di comprendere correttamente un testo informativo.
In che modo le possibilità offerte dall’informatica hanno trasformato il lavoro del classicista?
Anche qui, dobbiamo raccontare la storia di un pregiudizio. Anzi, sfatare un pregiudizio. Sono ragionevolmente certa che, in linea di massima, si tenda a pensare che lo studio delle lingue classiche abbia accettato l’informatica solo con enorme fatica e in tempi piuttosto recenti. E invece no. Le discipline antichistiche hanno incontrato l’informatica fino da tempi pionieristici, come mostra la storia, ancora tutta da valorizzare, di Padre Roberto Busa, che comprese le possibilità dell’informatica applicata ai nostri studi già negli anni ’40 del secolo scorso e nel 1949 attraversò l’oceano per andare a New York a incontrare Thomas Watson, il fondatore dell’IBM. Già questo non risponde esattamente allo stereotipo del classicista tutto chino sulle sudate carte, chiuso in una stanza buia e fredda, popolata da acari di ogni genere e specie. Al contrario, l’antichistica digitale nacque proprio insieme all’informatica, tanto che quando Padre Busa espose a Watson la sua intuizione, ovvero la possibilità di usare i computer per studiare i testi antichi, interrogarli in maniera automatizzata, connettere tra di loro parole e frasi e confrontarle con le altre fonti disponibili, Watson gli diede del visionario. Incalzato da Busa a credere nel futuro (sottolineiamolo: uno studioso di testi di duemila anni fa che invita il fondatore dell’informatica a credere nel futuro…), alla fine Watson si persuase. Non solo: quando Watson alla fine acconsentì a sviluppare il progetto di Busa, la leggenda vuole che abbia commentato così: «Padre, io ho fondato questa azienda e l’ho chiamata IBM, International Business Machines. Temo che grazie a questo progetto l’acronimo inizierà a significare International Busa machines». Ma padre Busa non fu un caso isolato. Nino Marinone, originario di Vercelli e professore di Storia della Lingua Latina all’università di Torino, già negli anni ’70 volle applicare le procedure computazionali che aveva conosciuto al LASLA, Laboratoire d’Analyse Statistique des Langues Anciennes, di Liegi, fondato nel 1961 (altra data pionieristica), ai testi grammaticali latini. Questa visionaria intuizione fu sviluppata da Marinone con la collaborazione tecnica del CNR di Pisa e portò ad una raccolta digitale, tempo dopo confluita in un CD-Rom. Di nuovo, siamo di fronte a un paradosso: quel prototipo non venne mai distribuito e commercializzato perché strumento troppo complesso, avanzato e di nicchia per quegli anni. Insomma, il problema dell’antichistica digitale è sempre stato l’opposto di quello che si potrebbe credere, cioè l’essere troppo avanti rispetto ai tempi. Ne deriva una conseguenza importante: un ragazzo interessato in pari grado alle lingue classiche e all’informatica non deve sempre scegliere in forma di aut aut quale dei due interessi seguire. Esiste un modo di combinarli e questo modo ha la forma dell’universo in continua espansione delle Digital Humanities, campo in cui esistono corsi di laurea e master. Ma anche moltissimi corsi di laurea in Lettere comprendono l’Informatica Umanistica, sia in forma autonoma, sia come metodo vastamente applicato. Questa rivoluzione digitale, che dura da molto, non deve però dare l’impressione che la biblioteca fisica sia ormai obsoleta e quindi mettere le cesoie in mano ai grandi amanti dei tagli. Le Digital Humanities si integrano nella biblioteca fisica, le permettono di espandersi verso altri settori e di aumentare i suoi servizi, non la sostituiscono. Internet è un luogo meraviglioso che – spesso – ti permette di trovare quel che stavi cercando, pur a prezzo di qualche distrazione e di qualche via sbagliata, ma solo la biblioteca ti permette di incontrare anche ciò che non stavi cercando, ma di cui avevi proprio bisogno. Quante volte ci siamo imbattuti nel libro che ha cambiato la nostra ricerca semplicemente perché era collocato accanto a quello che stavamo consultando? La ricerca umanistica è un lavoro, un lavoro vero, non un passatempo e questo lavoro necessita dei suoi luoghi e delle sue strutture. La biblioteca è il laboratorio dell’umanista e le sue provette si chiamano libri, manoscritti, documenti, epigrafi e papiri, ma anche tavoli appositi su cui analizzare questi materiali e computer da cui consultare le banche dati costruite grazie all’Informatica Umanistica. Nel corso di questa pandemia si è parlato troppo poco delle biblioteche, degli archivi e del loro ruolo fondamentale per studenti e studiosi.


 
Qual è la situazione dell’insegnamento universitario del latino?
Credo che la risposta migliore sia “a un bivio, ma non lo sa”. Mi spiego. Il latino universitario, oggi, si ritrova a fare i conti con gli esiti della riforma Gelmini, che ha ridotto fortemente lo studio del latino in tutte le scuole superiori diverse dal Liceo Classico. Questa riforma, absit iniuria verbis, ha creato una situazione assai disomogenea in termini di competenze acquisite nella materia. Ciò è particolarmente evidente nel Liceo Scientifico dove – nonostante gli anni trascorsi – nella pratica la scelta di come gestire le tre ore superstiti è ancora lasciata al singolo docente. Questa anarchi… volevo dire libertà interpretativa, genera caos, in quanto esistono scuole in cui lo studio della lingua e la pratica della traduzione vengono coraggiosamente salvate da professori eroici. In altre, invece, il povero docente cade sotto il bombardamento delle famiglie (perché la traduzione? perché questi brutti voti? tanto siamo al liceo scientifico…), alza bandiera bianca e dopo il biennio si concentra in modo esclusivo sulla letteratura, foriera di molte meno insufficienze, accantonando la pratica della traduzione e la verifica puntuale della lingua. Non apriamo poi il discorso del Liceo delle Scienze Umane. Anzi, sì, apriamolo per un attimo. Partiamo da un dato di base, che forse è bene ribadire: l’esame di latino è obbligatorio per accedere alla professione di insegnante in tutti i gradi e i tipi di scuola secondaria. Sì, anche per insegnare italiano alle medie. Sì, anche per insegnare negli istituti tecnici e professionali. Riassumo per chi non avesse ancora capito: per insegnare italiano in qualsiasi scuola secondaria, all’università sarà necessario sostenere un esame di lingua latina, anche piuttosto corposo. E questo andrebbe ricordato a tutti gli insegnanti che, pensando di fare il bene dei propri studenti, abbandonano lo studio della lingua. No, non è fare il loro bene, ma equivale a minare il loro percorso successivo, soprattutto per chi sceglierà studi umanistici – e non sono pochi. Ma torniamo al nostro Liceo delle Scienze Umane. Questa scuola, nata come evoluzione dell’Istituto Magistrale, nella forma in cui è ora sembra ignorare questo antenato, quasi se ne vergognasse. Eppure, una buona parte degli studenti che si iscrivono lo fa anche ipotizzando uno sbocco lavorativo nell’istruzione. Peccato, però, che quando questi studenti giungono a Lettere proprio per dare corpo a un progetto di vita iniziato con la scelta della scuola superiore, al posto di percepire affinità e coerenza, scoprono di essere sbarcati sulla Luna o almeno in terra straniera: il latino o lo hanno studiato solo al biennio (e spesso nella forma di “infarinatura di civiltà”) o non lo hanno studiato affatto. Anche per le altre materie, non va molto meglio. Insomma: tra loro e la professione dell’insegnante vi è lo stesso percorso accidentato e in salita che può incontrare un diplomato all’istituto tecnico o professionale. Quest’ultimo, però, quando si iscrive a Lettere (magari per dare sfogo ad una vocazione non seguita a 14 anni) sa di avere qualche lacuna da colmare e quindi parte motivato. Questo entusiasmo, invece, non caratterizza affatto gli studenti che provengono dal Liceo delle Scienze Umane, scuola che – come si diceva – hanno scelto non escludendo (per non dire direttamente progettando) una carriera nell’insegnamento. “In fondo era l’istituto magistrale, no?” si chiedono le famiglie che non sempre (e meno male) riescono a stare dietro alla girandola dei nuovi nomi ideati dall’alacre Ufficio Ideazione Nuovi Nomi del MIUR, particolarmente attivo nell’appiccicare l’etichetta di “Liceo” un po’ ovunque, ma meno solerte nel far corrispondere etichetta a contenuto. Ma non divaghiamo troppo. Torniamo al nostro povero diplomato al Liceo delle Scienze Umane che arriva a Lettere e scopre che per diventare un insegnante deve sostenere minimo 12 cfu, cioè un esame annuale di latino. Peccato che lui il latino non lo sappia. All’apparir del vero, la domanda sorge in lui spontanea: perché una scuola superiore che nel suo DNA anche ha una certa propensione allo sbocco lavorativo dell’insegnamento, ha tolto / fortemente ridotto il latino, quando poi per andare davvero a insegnare, l’esame di latino è obbligatorio? Era veramente un taglio strategico e necessario? A voi l’ardua sentenza. Anche a questa situazione si connette il problema dell’insegnamento universitario del latino, il cui punto dolente è rappresentato dallo squilibrio: non di rado vi è un’offerta formativa ampia ed eccellente, ma rivolta ad una minoranza di studenti, vale a dire chi si iscrive a Lettere provenendo da un Liceo Classico. Il problema è che questi studenti sono sempre meno. Se, infatti, si esclude l’isola felice delle Lettere Classiche, scelta vocazionale di una maggioranza di diplomati al Classico, accompagnati da una minoranza che proviene da altre scuole, ma è spinta da motivazione fortissima e quindi è pronta ad affrontare a viso scoperto e con grande entusiasmo lacune e difficoltà, quel che i docenti di latino si trovano ad affrontare, ogni settembre, è una pluralità di livelli di preparazione diversi, a cui si aggiunge la massa sempre in crescita dei principianti assoluti. La sfida dell’insegnamento universitario in futuro dovrà partire proprio da questa consapevolezza, cioè che i rapporti numerici si stanno invertendo, in quanto gli studenti che si iscrivono a facoltà umanistiche senza avere mai studiato il latino non sono più l’eccezione, ma stanno diventando la regola. Ad oggi, però, non esiste ancora una vera didattica pensata per loro. Manca un disegno strutturale e omogeneo, a partire da una gamma di libri di testo modellati su questo particolarissimo tipo di pubblico, strumenti che tengano conto del fatto che – non giriamoci intorno – quanti provengono da cicli di istruzione tecnica o professionale anzitutto sono abituati ad un metodo di studio diverso da quello del liceale e – cosa più importante – spesso hanno significative lacune di italiano. Credo di esprimere un’esperienza diffusa tra chi insegna latino di base all’università: il problema non è quasi mai il latino, ma l’italiano. Ovvero: io studente posso anche aver capito la regola della proposizione concessiva latina, il punto è che non so dove appoggiare questa nozione perché il cassetto dell’italiano che dovrebbe contenerla o è chiuso da anni o è drammaticamente vuoto. Questa considerazione ci riporta al discorso del ruolo del latino: quando all’università gli studenti capiscono che l’esame di latino a Lettere non è la naja, non è una corvée insensata, non è quiz enigmistico, non serve a decifrare le scritte all’ingresso dei cimiteri, ma rappresenta la chiave con cui finalmente possono aprire il forziere della lingua italiana, allora tutto cambia. Non appena si rendono conto che le ore di grammatica latina li aiutano ad essere parlanti e scriventi italiano più consapevoli, che certe regole, come la differenza tra complemento oggetto e nome del predicato, che in italiano sono teoriche, mentre in latino sono plastiche e visibili grazie al sistema dei casi, allora davvero nell’aula si accende un faro da stadio, gli studenti capiscono il famoso perché studiare latino e sono loro stessi a dispiacersi che la materia sia stata tolta da così tante scuole. A questo punto mi ricollego all’apertura: perché l’insegnamento universitario del latino è a un bivio, ma non lo sa? Il bivio è questo, tra il continuare a pensare che gli studenti principianti o quasi siano l’eccezione e iniziare, invece, ad accettare che stanno diventando la regola. Ad oggi, invece, sebbene i numeri parlino forte e chiaro, il meglio dell’insegnamento universitario si concentra su una minoranza, mentre nei corsi riservati agli studenti che il latino lo sanno poco o nulla, una massa talvolta etichettata come “male necessario”, spesso si naviga a vista, e dove si è vista in atto una didattica davvero efficace e “cucita su misura” per loro, questa è più frutto dell’impegno e della dedizione del singolo docente, che non di un disegno strutturale. Anche perché, nonostante tutto, anche questi studenti rappresentano il nostro vivaio: molti, ad esempio, intraprenderanno la carriera del docente della scuola secondaria di I grado (nome pomposo dietro a cui si nascondono le scuole medie) e lì rappresenteranno le figure chiave per la formazione di generazioni di ragazzi. Difficile che possano insegnare la lingua italiana con efficacia e padronanza e, al tempo stesso, trasmettere ai preadolescenti il valore del latino, se ai tempi dell’Università hanno avuto con il latino un incontro confuso, poco efficace e da cui non hanno tratto la minima consapevolezza della sua importanza.

Quando e come nasce il progetto DigilibLT?
DigilibLT, Digital Library of late antique Latin Texts (https://digiliblt.uniupo.it) nasce nel 2010 presso l’Università del Piemonte Orientale per iniziativa di Raffaella Tabacco, professore ordinario di Lingua e Letteratura Latina e di Maurizio Lana, docente di Biblioteconomia e uno degli alfieri italiani delle Digital Humanities. Il progetto nasce come risposta ad una mancanza: come abbiamo già visto, la letteratura latina on line ci è finita piuttosto presto, però non tutta. Un’assenza illustre era appunto rappresentata dalla produzione tardoantica in prosa e di contenuto pagano, che la rete offriva in forme sparse e non scientificamente controllate. Tale frammentazione era il semplice riflesso del minore interesse che, storicamente, è stato rivolto ai testi più tardi rispetto alla cosiddetta epoca classica. Il digitale ha replicato questo disequilibrio: se, infatti, la letteratura latina dalle origini al II secolo d.C. fu una delle prime a trovare un’autorevole sistemazione digitale grazie alla banca dati del Packard Humanities Insititute (PHI), prima su CD-Rom e oggi disponibile online (https://latin.packhum.org), il tardoantico, rimasto fuori da questa rigorosa sistemazione, per molto tempo è stato ai margini anche della rete. La scarsa diffusione di questi testi ha lasciato in ombra anche tutto il mondo che gravitava intorno a loro ed è un vero peccato, perché si tratta di una letteratura intrisa di vita reale, o meglio, al servizio della vita reale. Sono testi medici, raccolte di rimedi per malanni, opere di agrimensura, ma anche manuali di scuola e testi giuridici. Insomma: testi che servivano nella vita di tutti i giorni, che venivano consultati, studiati e annotati, testi che risolvevano problemi. Difficile dire che non pulsino di vita. DigilibLT nasce quindi per metterli a disposizione libera e gratuita e rappresenta un database scientifico della letteratura latina tardoantica, dal II al VI secolo d.C., con particolare attenzione ai testi in prosa e di contenuto secolare. A dieci anni dall’avvio del progetto, possiamo dire che la missione è stata compiuta: ad oggi DigilibLT offre ai suoi lettori più di 350 testi, basati sulle edizioni scientifiche di riferimento, liberamente interrogabili e scaricabili – gratuitamente e per intero – in differenti formati. Per poter essere accessibile non solo dagli addetti ai lavori, ma anche da un pubblico più ampio, ogni testo è corredato da un apparato paratestuale che ne presenta l’autore e offre una panoramica sia del contenuto sia dei principali problemi critici. Il vasto seguito che la biblioteca ha raccolto nei suoi dieci anni di vita ci ha poi spinto ad ampliarla, uno sviluppo a cui ha contribuito in maniera determinante il sostegno economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli. Due sono state le linee di sviluppo: la prima ha riguardato il celebre lavoro di Nino Marinone sui Grammatici Latini. Ricordate quel CD-rom rimasto in forma di prototipo perché troppo avanzato per i tempi in cui fu prodotto? Ebbene, DigilibLT lo ha recuperato e, al termine di un lungo e complesso lavoro, ne ha tratto in salvo i dati, ormai imprigionati in una gabbia tecnica divenuta obsoleta e incompatibile con gli attuali sistemi operativi. Il materiale del CD dei Grammatici Latini è quindi stato estratto, riconvertito e pubblicato sul sito. L’intervento, tuttavia, non è stato solo conservativo, ma, ha comportato una significativa prosecuzione del lavoro di Marinone, peraltro nel rispetto dello spirito collaborativo che ne aveva contraddistinto l’attività di ricerca: infatti là dove i testi contenuti nel CD-Rom hanno conosciuto un’edizione più recente, essi sono stati aggiornati, spesso in collaborazione con gli stessi editori. La seconda linea di sviluppo, ad oggi in piena realizzazione, riguarda l’inserimento in DigilibLT delle fonti giuridiche tardoantiche. Questa apertura è più di uno sviluppo, in quanto rappresenta anche un tentativo di abbattere la tradizionale barriera che divide i filologi dagli storici del diritto. Il mondo della scrittura legale tardoantica, infatti, viene studiato separatamente da giuristi e filologi e solo raramente le due figure lavorano insieme alla ricostruzione di un milieu storico-sociale ancora in larga parte oscuro. L’ampliamento di DigilibLT a comprendere le fonti giuridiche permetterà invece al giurista di incontrare le fonti antiche nel contesto linguistico, retorico, storico e culturale in cui si sono formate e, viceversa, al filologo di ampliare significativamente l’oggetto della sua ricerca. L’auspicio è che si possa favorire la costruzione di un sapere innovativo nato appunto dal dialogo tra competenze diverse.

Quali sfide presenta il progetto di una biblioteca digitale del latino tardoantico?
Le sfide che un progetto digitale deve affrontare sono molteplici e riguardano aspetti di diversa natura. Procedendo in cerchi concentrici possiamo partire da quelli più interni, ovvero le sfide di carattere scientifico, come l’individuazione del canone delle opere da inserire, la scelta delle edizioni più affidabili o la codifica dei glifi, ovvero i simboli che indicano unità di misura, particolarmente numerosi nei testi tardoantichi, data la loro natura spesso tecnica. Ad esse si aggiungono poi le sfide strutturali, come la scelta di quanti e quali aspetti tecnici del progetto delegare a ditte esterne e quanti, invece, tenere all’interno dopo apposita formazione del gruppo di lavoro. DigilibLT ha fatto una scelta coraggiosa e ha tenuto all’interno del gruppo di lavoro il maggior numero di aspetti tecnici, in particolar modo la marcatura XML dei testi. Per rendere questa scelta fattibile, il progetto ha puntato fortemente sul coinvolgimento dei giovani e non intendendoli come semplice manodopera, ma come destinatari di un ampio progetto formativo, destinato, da un lato, a rafforzare le competenze disciplinari, dall’altro ad acquisirne altre nel campo delle Digital Humanities. Tantissime quindi, le figure coinvolte, a partire da studiosi in formazione (dottorandi e assegnisti post dottorato), le cui ricerche filologiche avanzano di pari passo con un significativo addestramento in Informatica Umanistica, costantemente perfezionato in Italia e all’estero grazie al sostegno economico del progetto. Forme come le “borse di addestramento alla ricerca” hanno poi permesso a laureati magistrali di collaborare – sempre in forma rigorosamente retribuita – all’interno del progetto e ricevere una formazione ulteriore, mentre i laureandi hanno potuto scegliere DigilibLT come sede presso cui svolgere uno stage curricolare, un’esperienza grazie alla quale acquisiscono competenze digitali che permettono loro di affacciarsi al mercato del lavoro con un bagaglio di competenze arricchito e aprirsi a nuove possibilità di impiego. “Ah ma io voglio andare a insegnare a scuola, non mi interessa imparare le Digital Humanities”. In passato avrei potuto parlare ore e ore per convincervi di quanto sia importante, anche per un insegnante, saper parlare la lingua del digitale. Poi è arrivato il COVID e con esso la DAD, quindi ogni considerazione è superflua. Mi limito ad un’osservazione: se, a emergenza finita, la DAD si sarà rivelata una risorsa o l’ennesima mela avvelenata messa nel cestino dell’istruzione, in molto sarà dipeso dalla capacità del singolo docente di gestire il mezzo digitale. Tornando a DigilibLT, non voglio dimenticare anche gli importanti risultati che abbiamo ottenuto dai progetti di alternanza scuola-lavoro. Da molti anni, infatti, in alcuni mesi i corridoi della nostra università si popolano di studenti liceali che – sotto la guida della collega Nadia Rosso – fanno contemporaneamente pratica di latino e di informatica e imparano come, a partire da un testo cartaceo, si arrivi all’esito digitale marcato in XML. Restano poi i cerchi più ampi, ovvero i problemi di più ampia ricaduta che un progetto digitale si trova a fronteggiare. Essi – sostanzialmente – riguardano la manutenzione e la valutazione. Mi spiego: quando uno studioso raccoglie gli esiti della propria ricerca, magari ventennale, in un libro cartaceo, egli sa che quel libro, se avrà conosciuto un minimo di distribuzione tra lettori e biblioteche, è destinato a durare per anni, decenni, magari secoli. Questo accade perché l’accesso alla forma-libro non è cambiato nel tempo: lo apro e lo leggo. Forse sono cambiati i materiali, le dimensioni dei libri, i costi di produzione, la texture della carta, ma la tecnica della lettura è rimasta uguale e io posso serenamente leggere il libro di mitologia latina pubblicato nel 1876 appartenuto al mio bisnonno, mentre non sono in grado di leggere la mia tesina di maturità, scritta poco meno vent’anni fa, se è rimasta su floppy disc. Ma senza andare a fare archeologia dell’informatica e scomodare i floppy disc, basti pensare alle chiavette USB: fino a un paio d’anni erano uno strumento indispensabile, mentre ora sonnecchiano nei nostri cassetti, superate dai sistemi di archiviazione cloud. Ecco, siamo nuovamente di fronte ad un imbuto nella storia dei testi, in cui tantissimo materiale andrà perso perché non verrà mai passato da un supporto USB al cloud o per distrazione o perché non ritenuto degno di tale passaggio. Lo stesso vale per i grandi progetti digitali, che nascono in una determinata era informatica e si basano sui sistemi operativi e sulle infrastrutture di quel particolare tempo. C’è quindi il rischio – assai concreto – che la rete in futuro si riempia di spazzatura digitale, ovvero di progetti che dieci-quindici anni prima avevano ottenuto un finanziamento cospicuo e avevano richiesto ore e ore di lavoro scientifico da parte di un team accuratamente selezionato. Eppure, nonostante tutto lo sforzo, tutto l’impegno e tutto il denaro speso, i progetti digitali possono morire nell’arco di un decennio, se non vengono tenuti al passo dei successivi, inarrestabili, sviluppi dell’informatica. Per scongiurare questo rischio è necessario un cambio di mentalità, accettare che di questi progetti non si arriva mai all’ultima pagina e alla parola fine, ma che anche in sede di progettazione economica si deve prevedere una voce legata alla manutenzione a lungo termine. A questo punto, tuttavia, la domanda si fa più complessa e tocca andare a scomodare Giovenale: quis custodiet…? Chi custodirà i progetti? Ovvero: su chi ricade la responsabilità del mantenimento a lungo termine e dell’aggiornamento di un progetto concluso? Ricade sul gruppo di ricerca (e in quel caso, con quali finanziamenti? si sa che i bandi hanno il difetto di voler sempre premiare il nuovo, raramente sostenere il vecchio). Ricade sull’ateneo? Sul Ministero? Ai posteri l’ardua sentenza. La seconda grande sfida generale è sicuramente legata alla valutazione del progetto digitale, un problema particolarmente vivo e sentito dalla comunità accademica. Se, infatti, una monografia è sottoposta al vaglio della comunità scientifica di riferimento, che si esprime tramite recensioni o – in fase preliminare – con le valutazioni in doppio cieco, questo non è ancora valido per il prodotto digitale. Ciò accade perché le procedure valutative, quando si trovano di fronte al prodotto digitale, in assenza di quelle bussole che storicamente regolano il giudizio sul prodotto cartaceo, in molti casi navigano a vista e la verifica ben di rado va oltre la semplice constatazione dell’esistenza del sito o del database promesso in fase di candidatura, mentre sul contenuto e sulla metodologia applicata, sia disciplinare sia tecnica, non vi è quasi mai quel vaglio scientifico a cui sono sottoposti libri e articoli. Tale scarso controllo finisce per dequalificare il prodotto digitale e ad avere un effetto negativo sulla valutazione dello studioso che si dedichi in misura prioritaria a questo tipo di ricerca, ricerca che spesso non riesce a uscire dal vicolo cieco di “cosa per prendere soldi” ma inutile, se non dannosa per proseguire nella carriera accademica. Segue, a cascata, un ulteriore effetto negativo: questa incertezza sul come il progetto digitale verrà valutato in sede concorsuale e abilitativa finisce per scoraggiare, almeno in parte, chi voglia perseguire queste strade, in quanto non è raro che al danno di essere stati scartati o giudicati da meno del collega che esibisce il libro cartaceo, si assommi la beffa di tutto il tempo investito nello sforzo tecnico e di progettazione del prodotto digitale, uno sforzo non richiesto dalla ricerca tradizionale. Anche qui, la ricerca del colpevole è inutile in quanto si tratta di un insieme di fili che si incrociano a formare un grosso nodo. La sfida del futuro sarà sicuramente quella di scioglierli, uno per volta.

Quale funzione possono avere i classici in una società multiculturale?
I classici possono rivestire un ruolo fondamentale, e per far questo basterebbe iniziare a guardarli per quello che sono, non per come la posteriorità li ha interpretati. La maggior parte di ciò che chiamiamo “classico”, infatti, è il prodotto di una società multi: multiculturale, multietnica, multireligiosa, multilingue ed espressione di una realtà geografica molto più ampia di quel Roma-centrismo che i libri di scuola tendono a proporre. La storia di Roma è una storia di incontri di popoli, che a loro modo si mescolavano, convivevano, a volte lottavano, ma comunque si muovevano, sempre. E questo ancora sfugge: noi parliamo di Roma, ma ci sono imperatori che la città di Roma non la videro mai o quasi. Insomma, questa civiltà policentrica – per certi versi ancora tutta da scoprire – ha veramente moltissimo da insegnarci. E che l’antico sia una storia anche della diversità è un concetto che va sottolineato e difeso proprio oggi, dove soprattutto nel mondo anglofono lo studio dell’antichità greco-romana, i Classics, è posto pesantemente sotto accusa come studio di una civiltà imperialista, razzista, espressione di una minoranza maschile e violenta e, nei secoli, campo di studio a cui solo una ristretta minoranza di privilegiati, in massima parte bianchi e maschi, ha avuto accesso. Il discorso è molto più complesso e forse per noi è poco comprensibile. Ecco, quel che vorrei mettere in luce è proprio questo aspetto: per noi è poco comprensibile. Perché? La risposta è sempre la stessa, ovvero, grazie alla scuola. In Italia abbiamo un patrimonio di cui spesso siamo inconsapevoli, ovvero il sistema della pubblica istruzione, un sistema in cui chiunque, al costo di una marca da bollo, può iscriversi alla scuola superiore che ritiene affine ai propri talenti e rispondente alla propria vocazione, senza che la gamma delle materie studiate dipenda dalle possibilità economiche della famiglia. Altrove non è così e materie come il latino, il greco, la fisica avanzata, la storia dell’arte vengono studiate solo ed esclusivamente nel sistema privato, le cui rette superano i diecimila dollari l’anno. Chi non li ha, deve accontentarsi della scuola pubblica, che tuttavia non è una fotocopia, forse meno organizzata e dove i docenti cambiano e scioperano (tanto per limitarci ai luoghi comuni), ma un’istituzione completamente diversa, dove si studiano meno materie, sostanzialmente quelle di base, e con un livello di approfondimento di norma molto, molto minore. Certo, sappiamo tutti benissimo che la scuola italiana ha enormi difetti, spesso aggravati dai cicli di riforme che si sono susseguite promettendo esiti magnifici e progressivi, ma risoltesi nella solita serie di tagli. Così come è noto che l’Italia rappresenti il fanalino di coda in quanto a spesa pubblica destinata all’istruzione. Tuttavia, pur con tutti i suoi ENORMI difetti, un sistema scolastico dove il Liceo Classico è liberamente accessibile – al pari di qualsiasi altra scuola di gradimento del quattordicenne – ha sempre rappresentato un enorme motore dell’ascensore sociale, mentre altrove l’aver studiato il latino e il greco diviene il segno tangibile di un privilegio di classe. E come tale viene combattuto, in una lotta che spesso scambia il contenitore (la scuola in cui queste materie vengono studiate), con il contenuto. Poter studiare il latino (e il greco) gratis, è un privilegio che noi abbiamo avuto e che spesso sottovalutiamo. Cerchiamo di far sì che il privilegio di avere pubblico e libero accesso allo studio di questa civiltà letteraria, esito di un mondo plurale, sia valido anche per le prossime generazioni di ragazzi, a loro volta sempre più esito di un mondo plurale.

APPELLO PER LO STUDIO DEL LATINO

 Un liceo senza latino? Succede allo scientifico di Broni, Pavia, dove quest’anno non c’erano abbastanza iscritti ai corsi che lo prevedono per formare una classe. In Emilia Romagna, invece, l’ufficio scolastico regionale spedisce oggi a tutti i ragazzi della Regione che da domani frequenteranno il primo anno in un liceo che prevede il latino una lettera di Ivano Dionigi, latinista. La pubblichiamo qui.

Cosa dire a te che oggi, tra molte speranze e qualche timore, inizi l’avventura della Scuola superiore? Una gran bella età la tua, che ti spalanca le porte del mondo e del futuro; una gran bella opportunità il Liceo, che ti fa conoscere nuovi professori, nuove amicizie, nuove materie: una in particolare, il latino. Vorrei farti capire i vantaggi che questa lingua ti offre, la dote che ti porta, l’eredità che ti lascia. Il latino ti insegna l’importanza della parola.

Noi oggi parliamo male e abbiamo bisogno di ecologia linguistica. Simili agli abitanti di Babele, rischiamo di non capirci più; vittime di una comunicazione frettolosa, malata e talvolta anche violenta, smarriamo il vero significato delle parole. Il latino, lingua madre del nostro italiano, ci consente di risalire al significato originario delle parole, di riconoscere il loro volto, di ripercorrere la loro storia: perché le parole, come le persone, hanno un’origine, un volto, una storia. A cominciare dalla parola «comunicare» che — derivata dal latino communicare ( cum , «insieme», e munus , «dono», «missione») — significa condividere con gli altri un regalo, un privilegio, una funzione. E alla comunicazione, «arte del parlare» ( ars dicendi ), i Romani affidavano il triplice compito di «affascinare» ( delectare ), «insegnare» ( docere ), «mobilitare le coscienze» ( movere ). Quello che dovrebbe fare la nostra scuola. Il latino ti insegna il valore della comunità.

In un momento in cui sempre più marcata si fa l’attenzione sull’io a scapito del noi, gioverà la lezione di una lingua e cultura che metteva al centro l’uomo come cittadino ( civis ), che sapeva distinguere e coniugare la città architettonica dei muri e delle mura ( urbs ) con la città della convivenza civile e politica ( civitas ), che ha elaborato e trasmesso i codici sociali ed etici del bene pubblico ( res publica ). Pensiamo anche a parole-chiave quali humanitas , pietas , religio , significati e valori che vanno al di là dei nostri «umanità», «pietà», «religione». Il latino ti insegna la dimensione del tempo. Lingua madre delle lingue neolatine dal Mar Nero all’Atlantico e per oltre venti secoli lingua europea della politica e dell’Impero ( Imperium ), della religione e della Chiesa ( Ecclesia ), della cultura e della scienza ( Studium ), il latino ci mette in relazione con la storia; e ci dice che la cultura, come la vita, è un patrimonio comune e perenne che varca l’oggi e appartiene non solo a noi ma anche ai trapassati e ai nascituri. Forse questa è l’eredità più preziosa, perché oggi tu — connesso con l’immensa Rete del mondo ( www ) — rischi di sperimentare solo la dimensione spaziale e di rimanere schiacciato dall’eterno presente: senza cognizione del tempo, l’unica dimensione che ci consente di conoscerci e di progettare. La lingua e cultura latina ci apre il tempio del tempo e ci fa entrare in quello che sant’Agostino chiamava il palazzo della memoria. Là, in compagnia di Lucrezio, potrai confrontarti con l’uomo cosmico; in compagnia di Cicerone, con l’uomo politico; in compagnia di Seneca, con l’uomo interiore. Soprattutto — e sarà la sorpresa più bella — incontrerai scrittori che parleranno a te e di te, perché interpretano le contraddittorie ragioni del cuore: entusiasmi e delusioni, vittorie e sconfitte, gioie e sofferenze. Che lo studio del latino ti appassioni e ti arricchisca; e che tu in questi cinque anni possa condividere con i tuoi amici e professori la bellezza stupenda e tremenda di quella cosa che chiamiamo vita.

già Magnifico Rettore e direttore del Centro studi «La permanenza del Classico» dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna

(dal "Corriere della Sera" del 14.9.2017)

Greco e latino, se mettiamo le lingue classiche a confronto ci si apre un mondo

Se dovessimo comparare le lingue classiche scorgeremmo a maggior ragione la loro essenza, non a caso un esercizio fondamentale, soprattutto nei licei classici di una volta, consisteva nel tradurre dal latino al greco e viceversa, mettendo per un attimo da parte la lingua italiana. E questo esercizio, seppur spesso causa di panico fra gli studenti, a livello filologico e puramente linguistico, ti metteva in connessione, nella maniera più efficace possibile, con il vivo sintattico e morfologico di entrambe le lingue. Immaginiamo ora una sorta di comparazione fra le due lingue, che vada oltre il mero esercizio di traduzione, così caro ai classicisti che grazie al rigore della disciplina si arrovellano piacevolmente nello svolgimento della resa letterale di un testo, sciogliendo i loro rebus. Ma se invece ci approcciassimo ad un confronto anche dal punto di vista stilistico e storiografico fra le due lingue? Ci si aprirà un mondo. Ecco alcune delle differenze sostanziali su cui vale la pena riflettere. Il greco è la lingua della logica, il latino è la lingua della sfumatura Il logos è insito nel greco, la lingua razionale per eccellenza, come molte altre lingue indoeuropee, è una lingua flessiva. È fortemente arcaica nella conservazione delle forme dell'indoeuropeo. Il primo esempio che viene alla mente come tratto distintivo è la presenza dei tre numeri – singolare, duale e plurale –  questo ci fa pensare a quanto i greci amassero l'esattezza, precisando il numero duale, cioé di coloro che vanno in coppia, e chissà se questa peculiarità non derivi dall'epos omerico, o ancor prima dalle storie degli aedi, in cui coppie intramontabili come Achille e Patroclo, Ettore e Andromaca, non siano poi rimaste impresse nell'immaginario collettivo tanto da formalizzarsi in una vera e propria struttura linguistica espressa nel duale. Ma questa è solo una supposizione. Quel che è certo è che si tratta di una lingua esatta e più essenziale rispetto al latino, basti pensare come attorno al solo caso dativo orbiti un gran numero di complementi, articolati con preposizioni ad hoc. Inoltre anche la forma medio-passiva ci riconduce ad una dimensione di esattezza estrema nell'uso dei verbi, poiché per i greci un conto è compiere un'azione, un altro è compiere un'azione per se stessi, sfumatura che non va confusa con i soliti verbi riflessivi anche latini. Nella lingua greca il concetto del tempo è straordinario.

      L'universo verbale è forse l'ambito in cui più si riscontrano differenze fra le due lingue classiche. In greco è fondamentale l'aspetto del verbo, cioé "come" avviene l'azione, in latino, meno logico e ricco di sfumature, l'accento viene posto sul tempo del verbo, quindi su "quando" avviene. Motivo per cui in latino la consecutio temporum è ferrea, mentre in greco no e l'aoristo ne è l'esempio emblematico: un tempo verbale, che già dal nome, derivato dall'aggettivo "aoristos", indica semplicemente che inizia a svolgersi un'azione, senza una connotazione temporale ben precisa, senza indicare esattamente il quando. L'aoristo è un paradosso, un tempo "aoristos", appunto, indefinito, un tempo senza tempo, che si traduce adattandolo di volta in volta al contesto del periodo. A conferma del suo valore indeterminato, il suo uso proverbiale, appunto l'aoristo gnomico, perché i proverbi e le massime si collocano al di fuori del tempo, hanno validità universale. La matematica nel cuore della lingua e i rebus da sciogliere Inoltre a riprova che il greco sia la lingua della logica consideriamo apofonie e classi verbali, sono elementi quasi algebrici, è quasi come avere un approccio matematico, non si possono saltare passaggi per la ricostruzione dei paradigmi, più che nel latino, che un po' per maggiore analogia grafica a livello di alfabeto, un po' per analogia fonetica, ci risulta più familiare. Ma guai a farsi ingannare dalle apparenze, il latino è una lingua che richiede maggior sforzo cognitivo da parte di chi la studia. Lo è soprattutto quella in prosa, che è linguisticamente più dispersiva, carica di sfumature, ne è di esempio l'oratoria ciceroniana, dove in virtù dell'ars retorica, la lingua diviene un intricato susseguirsi di principali e subordinate. Ecco perché la prosa ciceroniana è considerata spesso un vero e proprio rebus. Il greco è la lingua della filosofia, il latino è la lingua dell'oratoria La razionalità del greco si è prestata bene alla filosofia, basti pensare a Socrate e Platone, e citandoli parliamo delle origini del pensiero. I dialoghi platonici costituiscono una vera e propria forma di comunicazione. Infatti, mentre della dialettica socratica possiamo affermare che si tratta di un metodo della ricerca filosofica, della forma scritta che la dialettica assume non si può sostenere lo stesso, perché è da Platone in poi che si inizia a scrivere. Nei dialoghi platonici si comincia a plasmare lo stile, e la lingua greca sembra essere perfetta per la ricerca filosofica e il ragionamento. Se dovessimo però ulteriormente differenziare le lingue classiche lasceremmo invece al latino il primato dell'oratoria, e con questo niente equivoci, bisogna infatti porre attenzione, non dimenticando uno dei due maggiori filoni dell'oratoria latina, quello "atticista", che affonda radici nell'oratoria attica greca, ma poi è come se i latini l'ars oratoria l'avessero collaudata ulteriormente. La civiltà greca è inevitabilmente alle origini di tutto Per parlare di epos, bisogna passare da Omero, dall'Iliade e dall'Odissea, solo attraverso questo enorme bagaglio arriveremo alla fondazione di Roma e all'Eneide virgiliana. Il divario cronologico fra le due civiltà è notevole, basti pensare che mentre la civiltà greca si andava ellenizzando, l'impero romano era ai suoi esordi. Con la morte di Alessandro Magno e la conquista da parte di Cleopatra del Regno tolemaico d'Egitto, con la battaglia di Azio del 31 a.C., l'Oriente cadrà definitivamente nell'orbita romana occidentale. L'epos, la storia, le strutture linguistiche, la filosofia e la retorica vengono dai greci, inutile specificarlo, ma i latini ne faranno buon uso. Durante l'età repubblicana e augustea di fondamentale importanza è il ruolo delle biblioteche, con la crisi della res publica, la cultura vuole emanciparsi dall'attività politico-statale. Ad incarnare perfettamente questo scenario culturale sarà Cicerone che comprende sempre più come la formazione dell'uomo politico debba essere ‘completa' di cultura e retorica, e non si possa prescindere mai dalla cultura greca. Cicerone è un idealista del passato ma al tempo stesso un innovatore perché sarà il primo a capire che la sapienza deve accostarsi all'usus, cioé alla pratica. E quando diciamo che, mentre il greco è la lingua della logica e della filosofia, il latino lo è della retorica, sarà proprio Cicerone ad insegnarcelo, ponendola al di sopra di tutte le altre discipline che devono ad essa subordinarsi. Ma la retorica è un'arma pericolosa, perché l'arte della persuasione nel mondo latino sarà sempre un'arma politica che molti si auspicavano restasse nelle mani di pochi. Ci auguriamo invece che oggi la cultura classica, non solo non si limiti a puro sfoggio retorico né sia destinata a pochi eletti, ma possa invece costituire patrimonio universale dell'umanità.

21 marzo 2017

Silvia Buffo   

 

 

UN ARTICOLO DI WALTER LAPINI CONTRO IL DEMONE DEL FACILISMO NEL LICEO CLASSICO

 

Il "facilismo" malattia infantile del classismo

La traduzione da greco e latino prova di maturità ma soprattutto di civiltà

08/11/2016

Pubblichiamo qui di seguito un articolo di Walter Lapini (professore ordinario di Letteratura Greca presso l’Università di Genova) sul tema oggi dibattutissimo del ruolo del Liceo Classico e in generale degli studi di antichistica nell’Italia contemporanea; un tema di cui Economia Italiana si è già occupata in tempi recenti.
Partendo da una risposta al collega Maurizio Bettini, presidente dell’AMA (Antropologia e Mondo Antico), Lapini riafferma tenacemente la centralità della traduzione nell’insegnamento del latino e del greco, nella convinzione che il ridimensionamento, l’annacquamento o magari la soppressione di questa attività altamente strutturante costituirebbe una disastrosa rinuncia all’ultimo potente antidoto contro la logica del facilismo e del pressappochismo che sta dilagando sia nella scuola sia nella società.
------------------------------------------------------
Premessa a quanto dirò sono gli articoli di Walter Lapini, L’autunno caldo della maturità, (21.09.2016), e Maurizio Bettini, Le ossessioni del Professor Walter Lapini (24.09.16), usciti entrambi nel blog Le Parole e le Cose (rispettivamente www.leparoleelecose.it/?p=24387 e www.leparoleelecose.it/?p=24439). Il primo anche in questo stesso giornale Economia Italiana del 21.09.16:www.economiaitaliana.it/it/articolo.php/Greco-e-latino-piu facili ARCHIVIO=1&ID=22857&LT=CULT.
Ne do per scontata la lettura.
Maurizio Bettini tenta di buttarla, come si dice, in caciara, inventandosi o realmente immaginando ruggini accademiche che non esistono. Ma io non voglio giocare a questo gioco e, da ossesso, torno a insistere sulla versione dal greco o dal latino alla maturità, sulla versione in genere, sul tradurre in sé. Torno a insistervi perché credo che il momento della traduzione solitaria da una lingua antica, con testo e vocabolario e nessuno attorno che ti aiuti o suggerisca, senza papà e mammà o fratelli e sorelle o professori di ripetizione o telefoni azzurri, sia un’esperienza formativa di eccezionale importanza e unica nel suo genere.
Perché unica? Perché ti obbliga a cercare una mediazione fra regola e intuito: da una parte sta la grammatica con le sue leggi e le sue pretese, dall’altra la tua discrezionalità, responsabilità, iniziativa. E tu sei lì in mezzo, e devi capire con le tue sole forze se la tale regola si adatta al tuo caso, o si adatta fino a un certo punto, o non si adatta affatto. In ciò sta il valore formativo della prova: nella dialettica fra regola e interpretazione, discrimine fra l’essere bambini e l’essere adulti.
Se Bettini ha trovato qualcosa di meglio, rinuncio alle nuotate in Liguria e mi unisco anch’io alla Scuola Estiva di Siena, nonché a quella trionfale transumanza da un’aula magna all’altra che il Nostro descrive con un pathos da avanzata di Serse. Ma purtroppo, anche se le tacche sulla cintura aumentano, gli argomenti restano i soliti due: (1) che occorre insegnare le lingue antiche con meno grammatica e (2) che occorre aggiungere alla versione di maturità una serie di paratesti e quindi ridurre il peso docimologico della traduzione secca.
Sul primo punto rispondo che per me una lingua con meno grammatica è come la musica con meno note o l’algebra con meno numeri. Quanto al secondo punto, capisco la proposta, ma continuo a non veder chiaro nei dettagli. E a quanto pare non sono l’unico. La studentessa L. Bevilacqua, soddisfatta frequentatrice dell’AMA, ha scritto che la vera dimostrazione che un brano è stato compreso non va cercata nella traduzione ma «semmai nel commento (che a me era richiesto, dopo la versione nei compiti in classe, e quella era la parte difficile): la versione potevo averla “confrontata” con i miei compagni, ma è solo dal commento che la professoressa capiva se io avevo “capito” davvero» («LPLC» 26.09.16).
Con tutta evidenza la signorina parla del commento tipo certamen, affidato all’iniziativa dello studente, riempito dei contenuti che crede lui. Bettini invece parla di domande pre-assegnate e finalizzate a chiarire ciò che da che mondo è mondo si chiarisce e si discute all’orale. Non è la stessa cosa.
Perciò o la signorina non stava attenta alla spiegazione, oppure il maestro sotto quei 30 gradi all’ombra (ma il Miur non potrebbe scucire all’AMA qualche soldo per l’aria condizionata?) si è spiegato male lui, dimenticando quanto dichiarato all’Unità (17.05.16), a Repubblica (24.06.16) e magari altrove. Poiché il punto è cruciale, Bettini non dovrebbe reagire con insofferenza a chi chiede spiegazioni stringenti. Come dice il comandante Strelnikov, «metti un coltello accanto a una forchetta e un cucchiaio e sembrerà innocuo». Anche queste domande di verifica sembrano innocue, ma bisogna vedere se lo sono davvero.
Bettini è uomo esperto e conoscitore della legge di Gresham, e certo sa che in questi casi l’elemento insiticio tende a invadere rapidamente tutto lo spazio disponibile: qual è la garanzia che i paratesti non diventerebbero un’occasione di generale seisachtheia? Mettiamo che il ragazzo faccia una versione da 3 e alle domande risponda da 4/5, che diventa 5 chiudendo un occhio e 5+ chiudendone due. La somma è all’incirca 8.5. Questo 8.5 diviso a metà ci riporta a 4 e qualcosa, che arrotondato fa 5. E il 5 da tempo non è più un’insufficienza. Sono conti della serva ma aiutano a capire.
L’esempio non è fictum, come possono testimoniare i tanti professori che a fine anno escono dallo scrutinio con le lacrime agli occhi, non perché non è stata saziata la loro sete di sangue, ma perché la democratica volontà del Consiglio li ha costretti a mettere sullo stesso piano – o a non differenziare abbastanza – l’alunno che ha studiato seriamente e l’alunno che non ha aperto libro. Un tempo si pretendeva il 6 politico ex instituto. Oggi pure si pretende il 6, ma attraverso l’aritmetica creativa. Il che è molto più disonesto.
Anch’io ho insegnato greco e latino al biennio e conosco la depressione degli igitur «si va», dei ventum est «tirava vento», degli archaia physis «antico mantice», dei kyrie eleeson «Ciro abbi pietà», degli hic libellus passati a hoc libellum, dei celsa concordati con aethera e così via. Anch’io mi sono detto e talvolta ancora mi dico che forse sarebbe meglio farla finita con questo scempio, abolire tutto, uccidere il cavallo azzoppato. Anch’io mi sono sorpreso a invocare riforme, alternative, soluzioni nuove. Solo che queste soluzioni non esistono. Bisogna metterselo in testa: non esistono. Il metodo tale o il metodo talaltro spesso non sono che pretesti per abbassare l’asticella senza darlo a vedere né agli altri né a se stessi. E le grandi riforme, a mia memoria, hanno sempre peggiorato le cose, nella scuola e fuori. Ma talvolta il vero passo in avanti è il passo indietro, il riprendersi ciò che ci hanno portato via. Ecco tre obiettivi belli concreti:
(1) Combattere il costoso e paralizzante leviatano burocratico nonché il nuovo flagello degli incentivi-elemosina che creano zizzania e pseudo-competizione, senza peraltro aggiungere allo stipendio dei premiati nulla che lo renda lontanamente decoroso.
(2) Contrastare il sempre più accanito sbriciolamento della cattedra di lettere, tenendo presente che la scissione del sinolo latino-greco, reso obbligato dalle demenziali riforme d’orario introdotte dalla Gelmini, è in realtà un fenomeno antico, fondato sul tristo calcolo per cui se un professore dice nero è probabile che l’altro dica bianco – con conseguente certa assoluzione dello studente che periclita.
(3) Selezionare i nuovi docenti sulla base di esami degni di questo nome, evitando il ripetersi della sconcia vicenda dello scorso luglio-agosto, allorché tanti giovani laureati solidi, preparati, vocati all’insegnamento, onusti di dottorati, master e abilitazioni TFA, sono stati falciati senza misericordia non perché non sapessero tradurre e commentare un testo, ma perché non c’era nessun testo da tradurre e da commentare.
Ricordo di passata che ad aprile proprio Bettini aveva dichiarato che un concorso senza scritti sarebbe stato una cosa «gravissima» (Corriere 28.04.16). Orbene, gli scritti – gli scritti come da sempre si intendono – di fatto nel concorsone di agosto non ci sono stati, ma non mi risulta che l’autore della perentoria dichiarazione abbia poi mosso collo o piegato sua costa. Eppure è anche dalla serietà del reclutamento che dipende la percezione della scuola come luogo in cui costruire qualcosa o viceversa come un ripiego, una condanna, una fine da sfigati.
L’appeal del latino e del greco e di ogni disciplina dipende dall’appeal del docente, e se il docente non piace, se non ispira fiducia o è sfiduciato lui stesso, puoi anche inventare i vocabolari al gusto di spritz o far spiegare gli aoristi da Ryan Gosling, ma sarà tutto inutile: i licei classici continueranno a svuotarsi.
Tempo fa Bettini scrisse un articolo intitolato Quelle inutili anzi dannose traduzioni greche e latine (Repubblica 05.03.15). I titoli degli articoli (e dei libri, talvolta) li fanno i titolisti. Perciò mi guardo bene dal crocifiggere l’illustre cattedratico a quello slogan. Quando Bettini dice di non voler eliminare lo studio delle lingue antiche dai nostri licei, non è la sua buona fede che metto in dubbio, ma la sua capacità di valutare la situazione nel lungo periodo e anche nel breve, nonché la sua capacità o volontà di smarcarsi da personaggi come Luigi Berlinguer, che nel memorabile sermone del Politecnico dichiarò paro paro che la versione della maturità classica andava abolita.
Io credo che questo continuo nebuloso parlare di alleggerimenti, di decurtazioni di programmi, di testi letti in italiano, porterà inevitabilmente alla decapitazione delle lingue classiche (e poi degli studi classici) nel nostro Paese. Forse Bettini è convinto che offrendo il dito verrà preso solo il dito. Io invece sono certo che verrà preso il braccio e tutto il resto, e non – come qualcuno sembra credere – perché esistano grandi vecchi, oscure regìe o protocolli dei saggi di Siena, ma perché si è formata una tendenza generale che non riconosce dignità alla fatica, che dissolve il nesso investimento-risultato e alimenta l’idea che l’ostacolo non sia una componente inevitabile del vivere (e magari un’occasione per cimentarti, migliorare), bensì una difficoltà che qualcuno ti ha messo davanti per malvagità, per farti dispetto. Questa idea si è impadronita anche della scuola, della nostra scuola iperdemocratica che sta pian piano rinunciando alla funzione di trasmettere sapere e di far emergere attitudini e talenti, e che alle lunghe può diventare (summum ius...) più classista della scuola di mezzo secolo fa, poiché nell’ignoranza generalizzata tutti si troveranno allo stesso livello, e le possibilità di agguantare un lavoro dipenderanno unicamente dalle aderenze di papà.
È questa cultura del facilismo, del tutto dovuto, del risultato a-costo-zero che dobbiamo contrastare, perché è qui che si vince o si perde. Ed è su questo che i maîtres dell’AMA, che tanto possono appo il ministero, dovrebbero riflettere, invece che esibire di continuo l’argenteria di casa ormai nota nell’ecumene e già un pochino ossidata.
Walter Lapini, Università di Genova

L'ECCELLENZA DELLA FORMAZIONE CLASSICA

 

Più bravi e regolari negli studi: 
la rivincita del liceo Classico

         di Antonella De Gregorio
 
La ricerca Almalaurea per il Corriere: chi si diploma in questo indirizzo ha voti più alti ed è più motivato. Ivano Dionigi: «Per rilanciarlo va riconosciuta l’importanza del Latino e del Greco. Potenziando la Matematica e le discipline scientifiche»
 
 
Ma quali processi e petizioni: per salvare il liceo classico basterebbe guardare i numeri. Quelli del voto di laurea degli ex liceali: qualunque facoltà scelgano, hanno punteggi più alti dei colleghi: 105, di media, contro 103 di chi esce dallo Scientifico e 99,7 di chi ha studiato a un Tecnico. O quelli sulla regolarità degli studi, innanzitutto: in linea con i diplomati scientifici e davanti ai tecnici. La motivazione, poi: il 40,3% dei laureati con formazione classica si iscrive all’università spinto da interessi culturali, contro il 32,3% dei laureati con formazione scientifica e il 27,8% di coloro che hanno un diploma tecnico. Quando si trovano a giudicare il loro percorso universitario, infine, sono più «consapevoli» ed «esigenti».
 
La scuola che «tiene» di più
   Basta, questo, a raccontare il liceo classico come la scuola che «tiene» di più? Ne è convinto Ivano Dionigi - latinista, ex rettore dell’Università di Bologna (dove da poco è tornato a insegnare), presidente di Almalaurea - che ha fatto analizzare dal Consorzio le performance universitarie dei diplomati al classico in tutti i corsi: umanistici e scientifico-tecnologici. L’indagine, che Dionigi ha illustrato in anteprima al Corriere e che ha sondato 270mila laureati nell’anno solare 2015, sfata molti luoghi comuni. Intanto, che il Classico sia la scuola dei «figli di papà»: lo è stato forse fino al 1969, quando era l’unico indirizzo che dava accesso a qualsiasi facoltà universitaria, mentre chi proveniva dallo Scientifico non poteva iscriversi a Giurisprudenza o a Lettere. «Oggi è ancora vero che chi viene dal Classico gode di un contesto socio-culturale più avvantaggiato; ma il dato del 33,8% proveniente dalla classe media impiegatizia, sommato al 13,7% della classe del lavoro esecutivo, smonta l’equazione», dice Dionigi. Oppure che offra prospettive di lavoro circoscritte: i diplomati al classico svolgono lavori in ogni ambito, da Fabiola Gianotti, direttrice del Cern di Ginevra, al regista Gabriele Salvatores. E poi che agli studenti del Classico siano precluse (o risultino più ostiche) le facoltà scientifiche. A Bologna quelli iscritti a Medicina battono i colleghi dello Scientifico per media di voti d’esame, voto di laurea e regolarità di studi. Lo stesso a Roma, alla Sapienza; e al Politecnico di Milano, dove il rettore, Giovanni Azzone, ha elogiato gli ottimi risultati dei diplomati classici.

Voti più alti

In generale, dice Dionigi «i voti di laurea sono più elevati, in tutti i quindici raggruppamenti disciplinari esaminati, tranne ingegneria, dove classici e scientifici comunque pareggiano (102,1). I numeri ci dicono anche che sono più numerosi i classicisti che hanno svolto periodi di studio all’estero (15,7% contro il 12,2% e il 9%)». Mezzi familiari e motivazione culturale in questo caso giocano alla pari.

 
La traduzione
 

Ma allora quel gregge sempre più sparuto (dimezzato in meno di dieci anni) che ha scelto il classico - 6 ragazzi su 100, nel 2016 - ha più vantaggi o svantaggi nella laurea (e nel lavoro) rispetto a chi ha fatto percorsi scientifici e tecnici? Domanda che ciclicamente torna e riporta alla querelle passatisti/modernisti, conservatori/riformatori, sull’utilità e la validità del liceo classico e di alcune sue prerogative (traduzione sì o no, per esempio). A partire dall’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, che reputava il Classico un liceo nozionistico, da svecchiare e alleggerire. Ma i sostenitori ne apprezzano metodo e organizzazione: allena capacità di concentrazione e di astrazione, padronanza della lingua. Mentre quel meccanismo di logica e rigore che è la traduzione, costituisce un esercizio mentale e cognitivo unico, sostiene Massimo Cazzulo, grecista e docente al classico Tito Livio di Milano: «Tradurre un testo classico significa mettere in atto, e simultaneamente, un ragionamento complesso che stimola i processi analitici, sintetici, intuitivi, gnoseologici, che induce a impostare un’ipotesi di lavoro e sottoporla, poi, ad una critica serrata, per vedere se funziona realmente. E questo spiega perché gli studenti che escono dal Classico ottengono risultati eccellenti anche in materie molto lontane dalla classicità», afferma.

Rilancio
Come si sia arrivati a mettere all’angolo un liceo che ci è stato invidiato da mezzo mondo richiederebbe un libro. Tra le pagine, comparirebbero processi, appelli e da ultimo anche una «task force» per rilanciare l’indirizzo di studi (taskforceperilclassico.it). Va detto che le critiche al Classico nascono dall’esterno, non dall’interno: chi lo ha scelto, in 74 casi su cento lo rifarebbe. Lo dicono i dati di Almadiploma, la branca di Almalaurea dedicata alla scuola superiore. «Non si tratta solo di difenderlo ma di riflettere, seriamente», dice Ivano Dionigi (che ha anche scritto, di recente, un libro sul valore del Latino oggi: «Il presente non basta»). «La discussione è centrale, per non correre in direzione di licei sempre più mediocri». Per un rilancio, Dionigi invoca innanzitutto un pieno riconoscimento dell’importanza del latino e del greco. E poi, «anziché semplificare e sostituire, come è stato suggerito, potenziare e aggiungere. Dilatando gli orari scolastici, rivedendo i compiti a casa, pagando adeguatamente gli insegnanti», dice. «Con un’adeguata e necessaria iniezione di matematica e discipline scientifiche nel classico, i segni più della nostra indagine si estenderebbero e affermerebbero in tutti gli indicatori». E continueremmo ad avere la miglior scuola d’Europa e d’Oltreoceano.

RISPOSTA A UN ARTICOLO DIFFAMATORIO DEL LICEO CLASSICO PUBBLICATO DA FILIPPO PAGANINI (Pres. Ordine Giornalisti Liguria) sul Secolo XIX dell'8 luglio 2016

 

   Il bello della democrazia è che molto di frequente prende il timone della nave il cuoco di bordo e l’altoparlante trasmette in continuazione non le direttive del comandante ma le varianti per il menu di domani. Pensavo a questa ironica riflessione di Kierkegaard, filosofo che si studia nell’aborrito Liceo gentiliano, leggendo gli argomenti con cui Filippo Paganini (“Presidente dell’Ordine regionale ligure dei giornalisti”) l’altro giorno ha dichiarato l’insensatezza e l’inutilità del Classico, i cui diplomati scriverebbero peggio dei cuochi dell’Alberghiero (parole sue) e che sprecherebbero cinque anni (sempre parole sue) facendosi delle “seghe mentali” sul greco.
   Ora, i buoni manicaretti mi piacciono, ma tra chef e imbrattapentole c’è qualche differenza.  Quali sono le tecniche da bassa cucina con cui i demagoghi più ignoranti  “prendono per il culo” (sì, si dice anche in greco) le masse, lo spieghiamo bene proprio al liceo classico leggendo le commedie dell’ateniese Aristofane: diffamazione gratuita, sfacciata disinformazione, promesse mirabolanti,  sfarfallio inconsistente di  pure emissioni vocali (vi ricordate ad esempio le famose “tre I” di berlusconiana memoria: “Internet, Inglese, Impresa” che avrebbero dovuto salvare la scuola?). All’opposto sta la consapevolezza che nasce dalla severa riflessione su una radice greca, su un pensiero di Cicerone, su una molecola del DNA, sul lessico e sul pensiero di una poesia storicamente contestualizzata, come lo splendido “Cinque Maggio” del Manzoni.  
   E’ così che il Classico si fa scuola di sapere critico, agorà in cui si preparano futuri cittadini attrezzati a salire dalla sala del self service a quella dove si scelgono con competenza  le rotte migliori, per dirigere la nave in acque profonde. Una profondità che è quella della cultura e dello spirito, non morta – come crede Paganini – ma mossa e vivificata dall’eros delle passioni individuali, che gli studenti di liceo classico scoprono e maturano nel corso del quinquennio, venendo a contatto quotidiano con il meglio di quel che la civiltà occidentale ha saputo esprimere in tre millenni.
    Consiglio a Paganini una veloce e intensa lettura dei principali storici greco-romani, per rendersi conto della prudenza e del rispetto cui è tenuto chiunque metta sulla carta dei giudizi che vogliano aspirare a essere credibili: l’informazione, innanzitutto, che nasce dalla verifica autoptica (si diceva una volta: ma mi rendo conto che forse è frutto di inappropriate “seghe mentali” sul greco) della realtà. Entri in un liceo classico, parli con docenti e autentici studenti (non semplici “frequentanti”), legga i loro scritti. Avrà molte sorprese e, se è intellettualmente onesto come io credo, non potrà che scusarsi delle sue errate e ingiuste valutazioni con una palinodia (e dàgliela con gli effetti delle “seghe”…), cioè con una ritrattazione.

                          Andrea Del Ponte
                     Docente di Latino e Greco
                                   al Liceo D’Oria
                                        Genova

IL LATINO E' MORTO? VIVA IL LATINO!

 Il latino è morto viva il latino

di Ivano Dionigi

Come interpretare al meglio la costituzione della Pontificia Accademia della Latinità? 
Come accordarne idealmente pensiero e finalità al magistero della Costituzione Apostolica Veterum sapientia di Giovanni XXIII e della Fondazione Latinitas istituita da Paolo VI? Più in generale: come contribuire a rendere utile e addirittura necessaria una lingua morta e la relativa cultura ormai da decenni rimossa, tenendo al contempo lo sguardo rivolto avanti e indietro, simul ante retroque prospicientes?
La cesura è intervenuta in tempi recenti: agli inizi degli anni Sessanta del ventesimo secolo, quando, dopo la scienza, anche la scuola e la Chiesa abbandonarono il “monoteismo” latino. Infatti, al grido «La lingua dei signori» (così titolava l'Avanti! un famoso fondo di Nenni), il Governo di centro-sinistra abolì l'obbligatorietà del latino nelle scuole medie inferiori, perché considerato «simbolo di educazione elitaria, e quindi di discriminazione sociale» (Traina); facendo pagare così un tributo tutto ideologico a una tradizione culturale fondativa.
Né le voci colte e nobili di Concetto Marchesi, Palmiro Togliatti e Paolo Bufalini -- favorevoli, come per altro già Gramsci, alla lingua di Cicerone e al suo insostituibile ruolo formativo -- valsero a evitare lo scontro tra i servatores e i novatores: scontro non di culture bensì di ignoranze, come se il latino e la classicità fossero di destra, e le scienze, il computer e l'inglese di sinistra.
Quasi in parallelo, il concilio Vaticano II decise di rinunciare in parte, nella sacra liturgia, alla lingua latina, e di adottare le lingue nazionali. Comprensibilmente quella Chiesa che si apriva al popolo di Dio e al mondo contemporaneo non poteva continuare a celebrare la comunione dei fedeli in una lingua ormai pressoché sconosciuta.
Eppure, proprio in quegli anni, esattamente il 22 febbraio del 1962, Papa Giovanni XXIII firmava e diffondeva con la Veterum sapientia un accorato elogio sia della sapienza classica sia delle due lingue: il greco e soprattutto il latino, riconosciuto come loquendi genus pressum, locuples, numerosum, maiestatis plenum et dignitatis (...) quod unice et perspicuitati conducit et gravitati (uno stile conciso, ricco, armonioso, pieno di maestà e di dignità che come nessun altro giova alla chiarezza e alla solennità). Una enciclica ricca di pensiero e di proposte, in verità non pienamente compresa e valorizzata negli anni seguenti.
Un doppio registro? Una doppia norma? Un messaggio contraddittorio tra concilio ed enciclica? Nulla di tutto ciò. Semplicemente, e del tutto coerentemente, si voleva ricordare ai pastori, al clero, ai futuri sacerdoti -- come fa ora il motu proprio di Benedetto XVI -- che la conoscenza della lingua latina e della cultura di Roma costituiscono un patrimonio irrinunciabile, perché in quella lingua e in quella cultura si ritrovano e si concentrano tre proprietà costitutive della fede: l'eredità, l'universalità, l'immutabilità. Quid nunc? Non possiamo non chiederci oggi: latino per chi? Latino perché? Per parlare bene. Ne era convinto anche un pensatore come Alexis de Tocqueville, il quale pur schierato dalla parte del sapere scientifico e tecnologico, riconosceva agli autori greci e latini una cura formale esemplare («nulla nelle loro opere appare scritto in fretta o a caso»).
Noi oggi scontiamo una vera e propria entropia linguistica: una condizione di disordine in cui le nostre parole, ridotte a vocaboli, smarriscono il loro volto e perdono la loro forza. Nel periodo del maximum della comunicazione sperimentiamo il minimum della comprensione. C'è una lingua neutra oggi, una sorta di koinè diafana e asettica che ci fa esclamare con Sallustio: vera vocabula rerum amisimus («abbiamo perduto il significato vero delle parole»).
C'è una ricerca ossessiva delle radici e dell'identità che non giova, propria dei sopravvissuti. Penso a certe Sodalitates che sfidando il ridicolo e nuocendo alla causa pretendono di recuperare anacronisticamente e sterilmente il latino come lingua viva. No; io sto con Eliot, grande ammiratore della classicità e in particolare della lingua di Virgilio, il quale amava dire che il latino è lingua morta, irrimediabilmente morta e fortunatamente morta, cosicché noi possiamo spartircene l'eredità; ma un'eredità da conquistare, non già un feticcio da ossequiare («Ciò che hai ereditato dai padri, conquistalo per possederlo», Goethe). Qui sta la sfida consegnata all'iniziativa e all'intelligenza di questa Accademia: individuare i modi realistici ed efficaci per capitalizzare questa straordinaria eredità linguistica e culturale.
C'è una ricerca delle radici e dell'identità che piace e che giova: l'identità del lessico fondamentale dell'Europa, che ha sempre parlato latino; dei lasciti culturali specifici (il pensiero filosofico, politico, giuridico, ma anche tecnico e scientifico); e soprattutto dell'eredità plurale, vale a dire l'acquisizione di una forma mentale aperta a tutte le possibili alternative, perché il mondo classico è abitato non da un pensiero unico e limitante, bensì dalla pluralità delle concezioni rivali del mondo. I classici, dunque, come testimoni di identità plurali o -- per dirla con Canetti -- come «custodi delle metamorfosi»; dei labirinti delle lingue e culture -- ebraica, greca e latina -- che educano al linguaggio della diversità, che alla cultura lineare e impoverente dell'aut aut sostituiscono la cultura dell'et et, vale a dire della memoria e dell'inclusione. Un'eredità, questa, che ci rende da un lato più disincantati e più saldi, dall'altro più ricchi e più aperti di fronte ai nuovi interlocutori che già da diversi lustri caratterizzano la scena del mondo: la globalizzazione col suo profeta internet, e le culture altre rispetto a quelle di Roma, Gerusalemme e Atene. La necessità e la centralità del latino si impongono perché Roma e la sua lingua sono state per noi il tramite per conoscere Atene e Gerusalemme.
Forti del patrimonio della tradizione (e delle tradizioni), i classici contrastano coi conformismi del presente e con le mode del momento (modo). Di fronte all'imperante sincronia e dittatura del presente, proprio la lingua latina ci può soccorrere nel recupero di un valore primario e costitutivo dell'uomo: il valore del tempo: il suo ordo verborum si tende e ci lascia sospesi fino a quando il prima, il durante e il poi non si ricompongono. Occorrerà adoperarsi perché ci siano ancora e sempre grammatici in grado di capire e tramandare i testi classici a favore dei populi. E questa trasmissione, come ogni scienza, può nascere solo -- con un forte senso di responsabilità comunitaria -- dalla «lampadoforia», e non dalla «tremula fiaccola del singolo» (Bacone, De sapientia veterum).

(©L'Osservatore Romano 22 novembre 2012)

Titolo

IL NUOVO INNO DEL CAMPIONATO DI CALCIO DI SERIE A E' SCRITTO IN LATINO

Il compositore Giovanni Allevi ha musicato un testo in latino e in inglese ("O Generosa!") che sarà l'Inno ufficiale del prossimo campionato di calcio di serie A: verrà eseguito prima di ogni partita. Desta enorme soddisfazione il fatto che si sia ampiamente fatto ricorso alla lingua latina per veicolare nella forma più alta i valori sportivi. 

Dal punto di vista tecnico-musicale «O Generosa!» è una composizione polifonica per coro a quattro voci e orchestra, formalmente affine al Madrigale Italiano Cinquecentesco. Il suo incedere, a tratti declamato, a tratti contrappuntistico, ha lo scopo di esaltare il testo encomiastico delle nobili virtù sportive ed umane, per essere «campioni nella vita e nel cuore prima di tutto», come afferma lo stesso Allevi. I valori universali trattati si esprimono attraverso le due lingue internazionali per eccellenza, nel passato e nella contemporaneità, il latino, lingua madre del nostro Italiano, e l'inglese.

Il testo di «O Generosa!» è stato scritto integralmente dallo stesso Giovanni Allevi, che si è avvalso anche della supervisione del latinista Franco Sanna, membro della Sodalitas Latina Mediolanensis, docente del laboratorio di Multimedialità e Studi Letterari presso l'Università degli Studi di Milano. «Il Latino, lingua madre del nostro Italiano, per tanti secoli fu la lingua universale dell'Europa, e ancora oggi è vitale e perfetto per esprimere l'aspirazione a ideali alti, nobili e condivisi. - afferma Franco Sanna - Il registro linguistico del testo vuole essere lontano dall'imitazione dei classici e vicino alla sensibilità moderna.
   La parola Magnitudo subito fa pensare a una nuova virtù cardinale, la Magnitudo animi, adatta ai nostri tempi: abbiamo bisogno di ampiezza di vedute, di generosità, di alti obiettivi cui tendere, elevandoci sopra le ripetitive miserie della cronaca. Solo con l'onestà il vincitore potrà raggiungere una gioia inimmaginabile». 

     Presentiamo il testo nella sua interezza: 

O generosa magnitudo!
O generosa veni ad nos!
Victori gloria, cum honestate semper movetur cor eius. (2 v)

Victori gloria
Victori gloria
Victori gloria
Custodi animum tuum
ut a corruptione abstineat
necopitatum gaudium accipies
O generosa!

Gloria, I say to you, Alleluia!
winner you will be in your heart Gloria,
I say to you Alleluia!
winner you’ll be in your heart
always you’ll be.

 

Un "manifesto" studentesco a sostegno degli studi classici

 Il giovane Tommaso Alberini, recentemente diplomatosi al Liceo classico "Romagnosi" di Parma e attualmente studente di Scienze Politiche all'Università di Bologna, è una testa pensante.  Appassionato di politica, di economia, di tematiche relative al lavoro, di letteratura e di cinema,  nonché autore di blog incisivi e penetranti, in un articolo del 27 novembre 2014 - pubblicato anche sulla Gazzetta di Parma - Tommaso risponde a chi crede che la cultura classica sia inutile, assieme al sapere umanista, perché lontano da quanto richiede oggi il mercato. Ecco le sue parole, rivolte in particolare agli organizzatori del cosiddetto "Processo al Liceo classico" svoltosi il 14 dicembre al Teatro Carignano di Torino:


“Le motivazioni addotte dall’accusa, per lo più composta da finanzieri senza scrupolo, politici di bassa lega e imprenditori più pragmatici che pratici, sarebbe rivolta all’inconsistente professionalizzazione della cultura classica e umanistica, che nel liceo classico, ovviamente, è predominante.
Sì perché, pare, il sapere letterario, teatrale, artistico, filosofico, non troverebbe riscontro nelle odierne esigenze di mercato, ergo la formazione degli studenti in questi campi è inutile, e va soppressa.
Per questi signori, quindi, non importa se i futuri studenti italiani saranno privati della possibilità di imparare a pensare, a sviluppare una criticità di fondo verso tutto ciò che li circonda, non importa se saranno privati della possibilità di imparare ad imparare.
Non sono luoghi comuni, il liceo classico insegna davvero tutto questo. Io l’ho fatto, per fortuna, e voglio provare a riflettere su quello che mi hanno lasciato quei cinque fatidici anni.
Innanzitutto la meraviglia. La meraviglia nello scoprire che l’uomo di ieri è esattamente uguale all’uomo di oggi: con tutti i suoi pregi, i suoi difetti, le sue debolezze e le sue potenze, la sua arroganza e la sua umiltà, la sua capacità di creare e di distruggere, la sua paura per la morte e il suo terrore per la vita.
La meraviglia nello scoprire che la disperazione di Antigone, mitologica principessa di Tebe, nel far valere i propri diritti davanti a una legge ingiusta, è la stessa che proviamo noi che combattiamo ogni giorno contro le ingiustizie sociali, economiche, culturali. Ed è disarmante, ma ti rende consapevole che siamo stati destinati a combattere dal momento in cui i primi uomini comparvero sulla terra, e ti dà la forza di non demordere, perché sai che i diritti sono giusti, il mondo quasi mai.
La meraviglia nello scoprire che Orazio, celebre poeta latino, già sapeva e confessava ad un amico che viaggiare muta i cieli e i boschi che ti circondano, ma non il male che ti affligge dentro. E ti rinvigorisce perché insegna, a noi della “generazione erasmus”, che a volte partire è necessario, tornare è sempre bellissimo.
La meraviglia nello scoprire che la parola “Xènos”, in greco, fin dall’alba in cui Omero cantó il viaggio di Odisseo, è lo straniero ma anche l’ospite, sacro agli dei. E allora capisci che i profughi di oggi sono i nostri salvatori di domani, che lasciarli morire nel mare che fu “nostrum” è assurdo e, se questo non basta, contro il volere di Zeus.
Il liceo classico mi ha insegnato tutto questo, ma anche tanto altro: troppo per essere riassunto ragionevolmente nel post di un blog.
E chissà, nel tempo, quanti altri insegnamenti sepolti nella memoria scopriró di aver ricevuto. Il bello di aver fatto il classico è questo: non sai mai quando effettivamente potrà tornarti utile, ma quando succede tutti gli ingranaggi vanno al loro posto e il mondo si ricompone in quella storia infinita e assurda che è la vita e che per ore, nella tua cameretta, hai studiato.
L’hai studiata attraverso gli Omero, i Sofocle, gli Eraclito, i Polibio, i Luciano e, perché no, anche attraverso le favole all’apparenza tanto stupide di Esopo, gioia pura dei ginnasiali, certi che, se gli venisse presentata sul banco “Il corvo e la volpe”, arriverebbe un 8 facile facile.
Il liceo classico è una scuola di vita, non esagero: una scuola di sensibilità, una scuola di politica (in senso lato), una scuola di mondo.
E pazienza se lungo il percorso hai incontrato qualche maniaca dei verbi deponenti, troppo isterica per riuscire a capire la bellezza vera di quello che insegna.
E pazienza se ti è venuto il mal di schiena a furia di portare nello zaino 10 kg di dizionario, troppo pesante per quel 6 e mezzo che hai strappato alla versione.
Anni dopo, ripensandoci, accetti anche quello e pensi che, anzi, forse è stato meglio così, perché sai che prima di te i greci avevano capito che gioia e dolore si definiscono e completano a vicenda, che senza una fatica non c’è un piacere, e sei così grato di averlo imparato a scuola.
Anni dopo, ripensandoci, sorridi e pensi che sì, lo risceglieresti il liceo classico, a occhi chiusi.
Penso che le motivazioni elencate non siano poche, nè di poco conto: il liceo classico non deve morire, nè ora nè mai. Si può modificare, certo, migliorare, ma senza soffocarne il cuore pulsante, che è l’eredità degli antichi, i nostri avi, troppo saggi per essere defenestrati da un manipolo di gretti industriali e scaltri lupi della finanza.
Sopprimere il liceo classico sarebbe paragonabile a un parricidio, che a Roma veniva punito con la “pena del sacco”: il reo veniva cucito vivo in un sacco di cuoio, assieme ad un cane, una scimmia e una vipera, per poi essere gettato nelle acque del Tevere.
Immagino nessuno voglia fare questa orrenda fine, sbaglio?
Se è così, giù le mani dal liceo classico".

LA VERSIONE DI LATINO PUÒ DIVENTARE ESERCIZIO UTILE E MODERNO SE NON PUZZA DI NAFTALINA

di Alessandro Schiesaro, da Il Sole 24 Ore.

 

Serve ancora la versione di latino? Probabilmente è meglio non chiederlo ai diretti interessati, gli studenti che si cimentano durante l’anno nei compiti in classe su Cicerone, Seneca e Livio. A occhio, a giudicare cioè da aneddoti e battute, è lecito pensare che nessuna parte del percorso scolastico lasci in così tanti un ricordo tanto piacevole: e questo è un vero peccato. La traduzione infatti, serve, eccome. Intanto, è ovvio, lo studio di una lingua, morta o viva che sia poco importa, ha come scopo fondamentale quello di comprendere testi che in quella lingua sono scritti o parole che in essa sono pronunciate. Tradurre, a mente o su carta, è quindi l’atto fondante di quella conoscenza. La traduzione dal latino, e dal greco, ha però caratteristiche sue proprie: non è finalizzata alla comunicazione diretta, interpersonale; non sollecita all’acquisizione di una capacità espressiva autonoma, mimetica, specie ora che la traduzione dall’italiano è pressoché scomparsa. Queste specificità sono però la forza e il pregio della traduzione. In nessun altro caso si esorta a scavare con altrettanta meticolosità nei meandri di un testo, di coglierne le articolazioni sintattiche e le sfumature espressive, di soppesare la cifra stilistica di questa o quella parola. È un esercizio “lento” per natura: affrettarsi non serve a nulla, perché non ne va di mezzo l’immediatezza di un dialogo o la necessità di sopperire a esigenze pratiche. Forse basterebbero da sole queste peculiarità fuori moda della traduzione per raccomandarla come antidoto alla fretta e alla superficialità. Ma un libro recente curato da Luciano Canfora e Ugo Cardinale (Disegnare il futuro con intelligenza antica. L’insegnamento del latino e del greco antico in Italia e nel mondo, il Mulino 2012) offre spunti di riflessione molto più stimolanti. Sia Canfora sia Dario Antìseri, uno studioso di formazione ed interessi molto diversi, rivendicano per esempio il valore epistemologico dell’esercizio di traduzione, un esercizio che impegna a quella dialettica tra ipotesi e verifica, o tra intuizione e ricostruzione, che sono alla base del metodo scientifico moderno. Leggendo, anche ad una lettura preliminare e superficiale, si formano ipotesi di interpretazione che vanno messe alla prova delle conoscenze grammaticali, sintattiche e semantiche. L’ipotesi potrebbe rivelarsi insoddisfacente, e andrebbe quindi abbandonata e riformulata, oppure reggere alla verifica e raccomandarsi quindi come un punto fermo nel processo di comprensione. Non diverso, sappiamo, è il metodo dello scienziato, per quanto diversi possano essere i suoi strumenti. Troppo facile, però, limitarsi a criticare chi critica la traduzione. Per prima cosa non è chiaro se e quanto agli studenti si spieghi mai esplicitamente il valore dell’esercizio che sono chiamati ad affrontare, e che trascende di gran lunga la semplice finalità di accertarsi se abbiano imparato adeguatamente regole e vocabolario. E poi, la traduzione resta spesso soffusa di un’aura inutilmente arcaica, quasi irreale, creata dall’uso di quello che Federico Condello ha felicemente chiamato “traduttese”. Un italiano sui generis, fuori dal tempo, paludato, in cui “ragazzi” e “ragazze” sono quasi sempre “fanciulli” e “fanciulle”, dove i guerrieri sono “valenti” e verbi come “giovare” o “dolersi” compaiono con una frequenza impensabile nell’italiano scritto degli ultimi decenni. Un odore di naftalina, insomma, che finisce per oscurare un serio discorso sull’ermeneutica e sulla letteratura. “Le lettere latine non sono studiate né amate dai giovani e, in quanto a cognizioni di latino, si ha un notevole regresso da venticinque anni a questa parte”. Parole sicuramente ancora vere, ma datate 1867. Il senso del declino, come si vede, non è nuovo. Oggi, però, possiamo ripensare l’utilità di materie e pratiche che si vogliono a tutti i costi in disarmo in termini nuovi, e ribaltare assiomi che sembravano scolpiti nella pietra: la traduzione, volendolo, può diventare il più moderno (e utile) degli esercizi.

Il liceo senza latino non è un Liceo   (di Remo VIAZZI)


Leggo, con un po’ di scetticismo, l’articolo pubblicato oggi su il Secolo XIX intitolato: “Don Bosco, il liceo sportivo boccia latino e arte”. Che tristezza! Un liceo senza il latino? Che senso ha? Un latino senza la storia dell’arte? In Italia? Che senso ha? In verità la dicitura stessa è un contro-senso: il latino è il liceo e non è data la possibilità che esista un liceo laddove non si insegni (possibilmente con serietà) il latino. Dategli un altro nome, ma evitate di farvi ridere dietro.

Un anno di esperienza nella sezione “sportiva (nel senso deteriore del termine)” del Liceo Scientifico King mi è basata per convincermi di quello che già sapevo: non serve a nulla, non insegna nulla, è una mera operazione di marketing cui la scuola si sta troppo velocemente abituando, alla faccia di quelli che ce l’avevano con il modello di scuola – azienda che sembrava , a loro dire, propugnare la riforma Moratti.

Dietro a questi esperimenti non vi è alcuna vision, non si intravede nessun ragionamento di natura pedagogica, ma emerge lampante il semplice desiderio di offrire agli studenti una scuola dai toni edulcorati, poco impegnativa, banalmente attraente. Dico questo con cognizione di causa, perché ragionamenti analoghi si stanno facendo anche nel liceo in cui lavoro e non ho ancora sentito nessuno argomentare sulla base di convinzioni metodologiche e pedagogiche. In buona parte so che non le condividerei dal momento che la mia impostazione è quantomeno un po’ all’antica, datata, ma tanto non le sento, quindi non è il caso che me ne preoccupi.

“I ragazzi vogliono meno latino”: va bene! “Vogliono meno matematica”: va bene! “Vogliono il sabato libero dalla scuola”: va bene! “Vogliono meno compiti a casa”: va bene! Perché?  Mica perché si crede veramente che sia giusto, ma semplicemente perché è necessario aumentare il numero degli iscritti per non perdere posti di lavoro, non subire accorpamenti, avere più fondi… È così che si vuole migliorarela Scuola?

Insegno latino e greco con grande passione e altrettanta severità. Son un insegnante esigente, a volte “cattivo”, ma credo fermamente in quello che faccio e ottengo, dal punto di vista del profitto e dell’adesione ai miei metodi, risposte esaltanti da parte dei miei alunni e delle loro famiglie. Tra i miei studenti migliori ho spesso avuto anche degli sportivi, alcuni attualmente ai vertici delle loro discipline in campo mondiale, e sono d’accordo con l’assessore Rossi quando afferma che «… praticare attività sportive migliora la concentrazione e le facoltà cognitive…»: un’ottima ragione per non sottrarre questi ragazzi allo studio di una materia così formativa quale è il latino e una così importante per lo sviluppo interiore della persona quale è la storia dell’arte.

Semplificare le cose ai ragazzi non è il loro bene. La scuola deve continuare ad essere palestra e deve essere palestra di un mondo sempre più competitivo e spietato. Bisogna aiutarli, sostenerli, far comprendere loro che i risultati si ottengono attraverso lo sforzo, la fatica, la dedizione e che tutto questo è bello!

Se veramente si vuole premiare il merito questa è la strada che l’Italia deve prendere già a partire dalla scuola.

       fonte: http://www.removiazzi.it/

Senza il Latino non si dà Liceo

NON CHIUDETE IL LICEO CLASSICO

GRECO E LATINO, IL VALORE AGGIUNTO DELL’ITALIA
di Cinzia Bearzot, da Avvenire.

Abbiamo avuto modo, in questi mesi, di riflettere sull’attualità dell’antico e di domandarci se davvero il mondo dei Greci e dei Romani sia così lontano da noi e così privo di interesse per chi vive nell’oggi, come spesso si sente ripetere. Da un punto di vista politico, storico e ideologico, mi auguro, al momento di congedarci, di aver dimostrato che non è così: l’esperienza degli antichi, per quanto la si possa sentire vicina, non può ovviamente fornirci soluzioni immediate per il presente, ma può certamente offrire importanti elementi alla nostra riflessione. Nell’analogia dei problemi umani anche in situazioni storiche diverse, lucidamente messa in evidenza da Tucidide, sta in gran parte l’attualità dell’antico. Se poi proviamo a prescindere dalle ragioni di attualità che pure non è difficile riconoscere nell’esperienza degli antichi, dobbiamo comunque ammettere che essa, sul piano storico, letterario, artistico, ha enormemente influenzato la storia della cultura mondiale. Letteratura e arti figurative hanno attinto incessantemente al patrimonio classico: la perdita di contatto con l’antico conduce di conseguenza a una grave frattura culturale, che rischia di rendere incomprensibili i capolavori della letteratura e dell’arte prodotti nel corso della storia della cultura moderna (del resto, anche forme di espressione artistica e di comunicazione tipicamente moderne come il cinema e la pubblicità si sono ispirate all’antico con eccellenti risultati).
Ci si può domandare se la conoscenza delle lingue classiche sia davvero necessaria per mantenere il contatto con l’antico. A mio parere, la risposta è sì. Senza l’accesso diretto ai testi e la possibilità, almeno, di verificare una traduzione, non è possibile conoscere profondamente, e in modo critico, una civiltà. Non dobbiamo credere, del resto, che studiare il greco e il latino sia inutile. Siamo ormai quasi gli unici ad assicurare una formazione classica nella scuola superiore e i nostri giovani laureati hanno competenze linguistiche di greco e di latino tali da renderli molto competitivi all’estero. Ma anche qualora si riducesse lo studio delle lingue a percorsi specialistici, l’insegnamento della cultura classica dovrebbe, io credo, trovare comunque spazio nei programmi scolastici, per consentire a tutti di accedere a un patrimonio culturale che diventerebbe altrimenti incomprensibile ai più.
Approfitto di queste riflessioni sulla necessità di tutelare importanti contenuti culturali per una nota conclusiva che non riguarda tanto il mondo classico, quanto la cultura biblica e storico-religiosa. Stanno crescendo giovani generazioni che non frequentano la chiesa e non seguono l’insegnamento di religione a scuola: giovani, quindi, che non hanno alcuna opportunità di conoscere l’Antico e il Nuovo Testamento e il loro contributo culturale. Anche chi frequenta il catechismo e l’ora di religione non sempre riceve una formazione adeguata sul piano della cultura biblica. La secolarizzazione ha tagliato i tradizionali canali di formazione in campo biblico e storico-religioso senza proporre alternative. Forse molti, presi da malriposti entusiasmi laicisti, non sono consapevoli del fatto che anche in questo caso la conseguenza è una grave frattura culturale. La caduta delle conoscenze in ambito biblico vieterà la comprensione dell’arte sacra, figurativa e letteraria: da Giotto a Dante, da Leonardo agliInni sacri manzoniani. Non è solo il rapporto con l’antichità pagana a essere a rischio, ma anche quello con la tradizione giudaico-cristiana. È bene che tutti ci riflettano, laici compresi.

(26/07/2012)

IDEE PER RISCATTARE IL LICEO CLASSICO

SOS Liceo Classico: via la polvere e largo alle emozioni

di Laura Vaioli | del 10/10/2013 |

 

In seguito al crollo delle iscrizioni, per salvare il Liceo Classico dall’estinzione, ecco una proposta che viene dal mondo del marketing: far uscire dagli scaffali polverosi le emozioni immortali della letteratura classica e, senza impoverirne il valore, trasmetterle attraverso i social network.


Secondo i dati riportati dall'inchiesta svolta da L'Espresso, nel mese di agosto 2013, sembra che il Liceo classico sia una scuola a rischio di estinzione.
Con una percentuale di iscrizioni dimezzate rispetto al 2007 si parla di una quota di mercato del 6%. A Firenze lo storico Liceo Dante è passato da 80 iscrizioni a 38 iscrizioni (2013).

Quando mio figlio, alla fine della terza media, ha detto che non aveva tra i suoi amici neanche un ragazzo che sarebbe andato al Liceo Classico, dopo aver deglutito ho esclamato interiormente: “servirebbe un piano di marketing, perché evidentemente il valore di questa scuola non viene percepito”.

Partendo dall'assunto che il Liceo Classico è una scuola unica nel suo genere e che non esiste qualcuno che, dopo averla conclusa, si sia pentito di averla scelta, il punto non è tanto elogiarne il valore, quanto riuscire a comunicarne, a livello emotivo, il fascino e la grandezza.

I giovani adolescenti arrivano alla scelta della scuola superiore con più libertà rispetto a come facevamo noi, qualche generazione fa, vanno dove li porta il cuore. Magari verbalmente dichiarano che scelgono una scuola perché offre loro delle opportunità di lavoro, ma intimamente sanno che scelgono ciò che li fa vibrare e li appassiona “oggi”. L’adolescente per definizione si nutre del presente.
Non a caso, nell'era della massima globalizzazione e della comunicazione immediata, quello che maggiormente fa ruotare l’ago della bussola è un tripudio di lingue vive e vegete (inglese, spagnolo, cinese, ecc.), indicando il successo dei licei linguistici nelle varie declinazioni di forme e contaminazioni.

Come esperta di marketing ho avuto modo di occuparmi di molti mercati, e anche in questo caso, per quanto la spinta sia di tipo social-culturale piuttosto che commerciale, si può parlare di marketing.
Il Liceo Classico è un prodotto di grande valore che però viene posto ai piani alti di un metaforico scaffale ed esce dal campo visivo del cliente.
Anche quando il cliente lo vede il nostro prodotto non attira l'attenzione, perché la sua scatola è polverosa, ha colori sbiaditi e sembra fuori dal tempo. Viene scelto solo da appassionati del genere vintage, che nella fascia 13/14 anni sono sempre meno!

Ma sapete dove è il problema?
È che la scatola non racconta realmente il meraviglioso contenuto, perché i contenuti del mondo classico, da cui l'omonimo liceo acquisisce la sostanza, sono oggi più vivi che mai. La scatola non corrisponde al prodotto reale che contiene.

Purtroppo della polvere, delle pagine ingiallite e dell'odore di antico, questa scuola aveva fatto il proprio piano di comunicazione, che si è dimostrato valido fintanto che la famiglia riusciva a contenere le spinte emotive dei propri figli.

Noi apparteniamo alla generazione che “ha scelto” senza avere esperienza del mondo globale e confidando nella saggezza dei nostri consiglieri. Noi abbiamo iniziato quella scuola senza farci tante domande e abbiamo scoperto il colore grattando sotto la polvere.

Oggi, nell'era del gratta e vinci, l'immediato è diventato moneta di scambio.
Bisognerebbe che i colori della cultura classica uscissero dalle pagine dei libri, nella loro leggendarietà, nella loro ineguagliabile intensità, nella loro cristallina purezza, e che riuscissero a emozionare passando attraverso i social network.

Quella di oggi è la generazione del fare, del provare, del vedere e del toccare.
La cultura dovrebbe scendere dagli scaffali e senza perdere di consistenza e di valore potrebbe semplicemente dialogare con le persone, di tutte le età, giovani compresi. Dovrebbe stimolare la sensibilità e il desiderio, passando attraverso il fascino immortale dei propri miti.

Del resto Socrate non caldeggiava in ogni dialogo l'interazione tra le persone?
Come è potuto accadere che l’abbiamo rinchiuso nei libri, proprio lui che nemmeno voleva scriverli da tanto li trovava forvianti ai fini della conoscenza?

Il piano di marketing del Liceo Classico passa da Socrate. Passa dalla socialità, dal “modello” e dalla ricchezza di punti di vista.

Liberare le emozioni è l'unica possibilità che abbiamo per non impoverire la civiltà.

http://www.educationduepuntozero.it/didattica-e-apprendimento/sos-liceo-classico-via-polvere-largo-emozioni-4083815047.shtml

TIMORI PER IL LICEO CLASSICO

lunedì 26 agosto 2013   Dal Blog di Giorgio ISRAEL http://gisrael.blogspot.com.au/2013/08/perche-se-muore-il-liceo-classico-muore.html

Perché se muore il liceo classico muore il paese

Da un lato un boom di iscritti ai test d’ingresso al Politecnico di Milano e una propensione per le lauree di ingegneria o direttamente correlate a una professione definita; dall’altro, un declino delle iscrizioni ai licei, in particolar modo al liceo classico. Alcuni commenti salutano questi dati come espressione di una tendenza positiva verso la “laurea utile”, verso l’abbandono delle propensioni “generaliste”, verso una preparazione corrispondente alle figure richieste dalle aziende. A noi sembra invece che la valutazione vada divisa: ottima è la prima tendenza, perché la rivalutazione delle professioni ingegneristiche e tecnologiche anche a livello della formazione professionale, è essenziale per un paese in via di declino industriale; pessima è la seconda tendenza per motivi che dovrebbe essere superfluo dire. Come può un paese che possiede più della metà dei beni culturali, artistici, architettonici del mondo non preoccuparsi di coltivare un ceto di persone di altissima competenza capace di valorizzare quel patrimonio che, se non altro, ha un enorme potenziale economico? Si badi bene: non si tratta solo della necessità di formare un esercito di archeologi, di restauratori, di persone all’altezza di gestire musei e l’immenso, quando degradato e depredato, patrimonio librario del paese. Si tratta di non disperdere la memoria dell’identità storico-culturale italiana. Come è possibile pensare che il patrimonio culturale del paese possa essere preservato se quasi nessuno conosce più neanche i nomi degli architetti, dei pittori, dei letterati, degli scienziati che l’hanno costruito e finisce col considerarlo un irriconoscibile ciarpame? Il disprezzo dell’umanesimo (anche sul fronte della cultura scientifica!) è la via per il sicuro declino.
Ci potremmo fermare qui, ma c’è di peggio. A chi ha sempre difeso le assurde accuse di stampo idealistico alle scienze esatte non può piacere il disprezzo simmetrico per l’“altra cultura” tacciata di non fornire né conoscenze né saperi pratici, insomma di essere un cumulo di prodotti inutili e di chiacchiere di dubbio valore. La sciagurata diatriba tra le due culture danneggia entrambe. Nella furia di distinguerle, le scienze vengono separate dalla cultura e pensate come mere abilità pratiche, predicando che solo ciò che ha un’utilità diretta vale qualcosa. Non a caso stiamo perdendo il senso della parola “ricerca”, ormai sinonimo di “innovazione tecnologica”.
Invece, lo straordinario successo della scienza occidentale è stato fondare la tecnica sulla scienza, creando la “tecnologia”. Tutte le grandi scoperte scientifiche che hanno cambiato il volto del mondo – a partire dal computer digitale – sono frutto di idee teoriche, fondate sulla “scienza di base”. Un grande ingegnere come Leonardo da Vinci ammoniva: «Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza. Quelli che s’innamoran di pratica senza scienza son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada». Oggi questo è più vero di ieri. Giorni fa un illustre ingegnere osservava che nel contesto odierno, sempre più complesso e ricco di interrelazioni, servono persone di formazione vasta e aperta, in breve di formazione umanistica, che spesso solo il liceo classico può dare. L’innovazione tecnologica richiede una cultura vasta capace di attingere ai campi più disparati, altro che specializzazione. Mi ha profondamente colpito l’osservazione che ho sentito da diversi ingegneri che le automobili di oggi sono, in fondo, ancora “bricolage” del modello originario, mentre occorrerebbe ripensarne uno nuovo non soltanto in termini tecnici stretti, ma tenendo conto del senso del “trasporto” nella realtà economico-sociale di oggi. Come può farlo questo chi non sappia di economia, di sociologia, di storia? In un’università tecnologica francese mi raccontarono: «Un’importante ditta automobilistica ci chiede come migliorare una difficoltà di carburazione. Un ricercatore elabora un modello e conclude che occorre aumentare di tot millimetri il diametro di un tubo. Cosa di veramente nuovo può venire da questo?».
È comprensibile che le imprese abbiano fretta e desiderino un sistema dell’istruzione funzionale alle formazione di addetti. Ma ciò può portare solo al disastro. Nè vale produrre l’esempio di paesi che imboccano questa via: qui il mal comune non è mezzo gaudio. Tanto meno può esserlo in un paese che non solo possiede gran parte del patrimonio culturale e artistico mondiale, ma ha una grande tradizione: aver saputo sintetizzare con successo, dal periodo postunitario, visione umanistica, scientifica e tecnologica. Di tale sintesi è stata espressione l’ingegneria italiana, costellata di grandi personalità che non erano solo “pratici” di prim’ordine, ma scienziati e umanisti. Tale fu Luigi Cremona, matematico puro, fondatore della Scuola di Ingegneria e ministro dell’istruzione. Tale fu Francesco Brioschi. Tale fu Vilfredo Pareto ingegnere ferroviario, imprenditore, e grande teorico dell’economia e della sociologia. Scienziato umanista fu il creatore della plastica Giulio Natta (diplomato in un liceo classico). Questa è la tradizione cui riallacciarsi, invece di credere che sia un progresso distruggere la formazione umanistica classica, proprio mentre viene riscoperta in paesi privi delle nostre tradizioni.
Abbiamo bisogno di persone di ampia formazione e capaci di scelte autonome, e non di polli di batteria formati per una sola funzione che, col procedere tumultuoso della tecnologia, potrebbe diventare obsoleta nel giro di poco tempo. Per formare persone del genere serve anche il liceo classico. Chi gioisce per il suo declino ride mentre è segato il ramo su cui sta seduto.
(Il Mattino e Il Messaggero, 25 agosto 2013)

IL PRIMATO DEL LICEO CLASSICO

Da "La Stampa" del  23/03/2010 - DOSSIER
Scuole di qualità
Sempre in testa i licei classici

Alla base della classifica il successo dei diplomati all'università

 
Nell’ultima settimana utile per scegliere a quale scuola superiore iscrivere il proprio figlio, la ricerca realizzata per il secondo anno dalla Fondazione Giovanni Agnelli sulla qualità delle scuole superiori piemontesi a partire dal successo che i loro diplomati ottengono nel primo anno di studi universitari, offre più elementi di riflessione. L’analisi - illustrata in profondità alle pagine 44 e 45 -, come spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, «si propone come un tassello del sistema di valutazione della scuola che si va costruendo in questi anni. I risultati che emergono rappresentano informazioni oggettive».

Così, una prima precisazione è d’obbligo. Dalla graduatoria - guidata da un istituto di istruzione superiore di Alba, l’Umberto I - sono usciti, rispetto al 2009, gli istituti professionali: il loro obiettivo formativo, infatti, è in primo luogo dotare gli studenti di strumenti utili per entrare nel mondo del lavoro. Poi, ricordare che la «graduatoria generale» utilizza i dati dell’Anagrafe Nazionale degli Studenti sul tasso di prosecuzione degli studi negli atenei piemontesi, numero di esami sostenuti al primo anno e velocità, ponderando le differenze tra i diversi corsi di laurea. Entrano poi in gioco elementi come genere degli studenti (le ragazze, si sa, studiano di più), talento scolastico espresso dal voto di maturità, condizioni socio-economiche del territorio e degli studenti.

Cosa si scopre, allora, scorrendo le 211 scuole piemontesi entrate nella graduatoria (requisito minimo di almeno 15 diplomati iscritti all’università) in cerca degli istituti della provincia di Torino? Che il classico Cavour è in testa, al 5° posto, che il secondo migliore (12°) istituto è in provincia, il Baldessano-Roccati di Carmagnola (preside Domenico Vanzetti, che nel 2009 guidava la classifica regionale con il liceo classico Arimondi di Savigliano). A seguire, altri due classici, il Gioberti (16°) e il D’Azeglio (22°). Il primo scientifico torinese è il Galileo Ferraris, guidato dalla preside Stefania Barsottini (25°). Al 27° e 28° posto altri due scientifici, rispettivamente il Curie di Pinerolo e il torinese Gobetti. Al 30° ancora un classico cittadino, l’Alfieri, seguito dal Newton di Chivasso (classico e scientifico). In 32a posizione si incontra il primo istituto non statale, il Maurilio Fossati di Rivoli, che quest’anno supera il più noto Valsalice (46°). Altre scuole torinesi in buone posizioni nell’elenco sono poi l’Itc Pascal di Giaveno (36°), il classico-scientifico-linguistico Monti di Chieri (37°), lo scientifico Galilei di Ciriè ((39°), l’ europeo Spinelli (41°).

Ma c’è un altro modo proposto dalla Fondazione Agnelli per leggere la «classifica» - che lo scorso anno non mancò di sollevare polemiche - e cioè prendere in considerazione il solo «effetto scuola», la qualità dell’insegnamento, l’organizzazione scolastica, la capacità di orientamento. Per i ricercatori questo è «uno dei fattori più importanti nella scelta di una scuola». In questo caso primo, al 5° posto, è l’Istituto tecnico commerciale e per geometri Galilei di Avigliana. «Noi cerchiamo di far star bene gli studenti - dice il professor Giovanni Barbaro, collaboratore della preside -, di vederli sereni. Proponiamo loro attività sportive, corsi di scacchi, di cinema: si fermano volentieri anche dopo l’orario e i risultati riflettono questa serenità». Nella «Top20» regionale altre scuole di provincia: ancora il Baldessano-Roccati al 6° posto, all’8° l’Itc Pascal di Giaveno, poi alcuni licei già segnalati e, al 12° posto, l’artistico torinese Cottini.  

Ridurre lo spazio dell'insegnamento del Greco antico in Grecia?

Pare incredibile, ma perfino in Grecia - culla della civiltà europea e Paese in cui da 3000 anni sopravvive, senza sostanziale soluzione di continuità, la lingua greca, c'è una parlamentare greca, Maria Repoussi (del partito Dimar) che sta proponendo al Parlamento di Atene di confinare lo studio del Greco antico nella sola scuola secondaria superiore, rendendolo per di più opzionale.

    Di Maria Repoussi si sa quel che recentemente ne ha detto in un intenso articolo sul "Foglio" (www.ilfoglio.it/soloqui/10422)  l'autorevole giornalista e scrittore Dimitris Deliolanes, corrispondente della Radio e TV ellenica ERT a Roma: "...la storica Maria Repoussi, un’oscura docente dell’Università di Atene, che qualche anno fa ebbe inspiegabilmente l’incarico di redigere il libro di testo (distribuito gratuitamente) per la prima media. Il risultato è stato un maldestro tentativo di riproporre il processo di acquisizione dell’identità nazionale greca secondo schemi europei occidentali (la nazione come prodotto delle monarchie nazionali) e di relativizzare il secolare antagonismo con l’islam ottomano. All’epoca il governo fu costretto a ritirare il libro, ma la sinistra ha difeso a spada tratta la storica pasticciona e tutte le baronie universitarie che la proteggevano".

     Anche noi possiamo unire le nostre forze a quelle dei tanti classicisti, in Grecia e in tutto il mondo, indignati per questa proposta, che prima di essere offensiva è innanzitutto stolta, perché se fosse approvata farebbe cadere la futura società greca in un baratro culturale e identitario ben peggiore di quello economico.  Basta collegarsi al seguente sito: www.gopetition.com/petitions/save-ancient-greek-language-in-secondary-school-curricula-of-greece.html e cliccare su "Sign the petition".

       "Classicisti di tutto il mondo, unitevi!"

Testo latino del discorso di abdicazione di Papa Benedetto XVI

Il Sacro Romano Pontefice Benedetto XVI abdica al suo Ministero. Annuncio dell'11 febbraio 2013.

 Fratres carissimi

Non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem magni momenti pro Ecclesiae vita communicem. Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum.

Bene conscius sum hoc munus secundum suam essentiam spiritualem non solum agendo et loquendo exsequi debere, sed non minus patiendo et orando. Attamen in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato ad navem Sancti Petri gubernandam et ad annuntiandum Evangelium etiam vigor quidam corporis et animae necessarius est, qui ultimis mensibus in me modo tali minuitur, ut incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum bene administrandum agnoscere debeam. Quapropter bene conscius ponderis huius actus plena libertate declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, mihi per manus Cardinalium die 19 aprilis MMV commisso renuntiare ita ut a die 28 februarii MMXIII, hora 20, sedes Romae, sedes Sancti Petri vacet et Conclave ad eligendum novum Summum Pontificem ab his quibus competit convocandum esse.

Fratres carissimi, ex toto corde gratias ago vobis pro omni amore et labore, quo mecum pondus ministerii mei portastis et veniam peto pro omnibus defectibus meis. Nunc autem Sanctam Dei Ecclesiam curae Summi eius Pastoris, Domini nostri Iesu Christi confidimus sanctamque eius Matrem Mariam imploramus, ut patribus Cardinalibus in eligendo novo Summo Pontifice materna sua bonitate assistat. Quod ad me attinet etiam in futuro vita orationi dedicata Sanctae Ecclesiae Dei toto ex corde servire velim.

Ex Aedibus Vaticanis, die 10 mensis februarii MMXIII

TRADUZIONE IN ITALIANO

Carissimi Fratelli,

vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato.

Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.

Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.

Qual è il significato dell'educazione

Scritto da Jiddu Krishnamurti


17 gennaio 2011

Vi siete mai chiesti quale sia il senso dell’educazione? Perché andiamo a scuola, perché impariamo varie materie, perché facciamo esami e gareggiamo fra di noi per avere i voti migliori? Qua’è il significato della cosiddetta educazione, qual è la sua vera funzione? Si tratta di un interrogativo realmente importante, non solo per gli studenti, ma anche per i genitori, per gli insegnanti e per chiunque ami questo nostro pianeta. Perché affrontiamo la lotta che il ricevere un’educazione comporta? È semplicemente allo scopo di superare qualche esame e trovare lavoro? Oppure la funzione dell’educazione è di prepararci, quando siamo giovani, a comprendere il processo della vita nella sua interezza? Avere un lavoro e guadagnarsi da vivere è necessario — ma è davvero tutto lì? E solo per quello che veniamo educati? Di certo la vita non è fatta soltanto di un lavoro, di un’occupazione. La vita è qualcosa di straordinariamente ampio e profondo, è un grande mistero, un vasto regno in cui agiamo in quanto esseri umani. Se ci prepariamo semplicemente a guadagnarci da vivere, non riusciremo a cogliere il senso della vita; e comprendere la vita è molto più importante che prepararsi per un esame o ottenere ottimi risultati in matematica, fisica e così via.
Dunque, in quanto insegnanti o allievi, non è importante domandarci perché educhiamo o veniamo educati? E qual è il significato della vita? Non è forse la vita una cosa straordinaria? Gli uccelli, i fiori, gli alberi in fiore, il ciclo, le stelle, i fiumi e i pesci che ci vivono — tutto questo è vita. La vita sono i poveri e i ricchi; la vita è la perenne battaglia fra gruppi, razze e nazioni; la vita è meditazione; la vita è ciò che chiamiamo religione, ed è anche gli aspetti inafferrabili, nascosti, della mente — le invidie, le ambizioni, le passioni, le paure, le gratificazioni, le angosce. La vita è tutto questo e molto di più. Ma di solito ci prepariamo a comprenderne solo una piccola porzione. Superiamo certi esami, troviamo un lavoro, ci sposiamo, abbiamo dei figli, e diventiamo sempre più simili a macchine. Continuiamo a essere paurosi, ansiosi, spaventati dalla vita. E allora, la funzione dell’educazione è di aiutarci a comprendere l’intero processo della vita o semplicemente di prepararci a una professione, al miglior lavoro possibile?
Cosa ne sarà di tutti noi quando diventeremo uomini e donne adulti? Vi siete mai chiesti cosa farete quando sarete adulti? Con ogni probabilità vi sposerete e, prima ancora di render-vene conto, sarete madri e padri; a quel punto sarete legati a un lavoro, o alle incombenze domestiche, e così, poco a poco, appassirete.
È tutto qui quello che la vostra vita si avvia a essere? Ve lo siete mai chiesto? Non dovreste interrogarvi a questo proposito? Se la vostra famiglia è agiata, può darsi che abbiate già assicurata una posizione abbastanza buona, che vostro padre vi procuri un lavoro comodo o che facciate un matrimonio ricco; ma anche così andrete incontro al declino, al deterioramento.
Certamente l’educazione non ha senso a meno che non vi aiuti a comprendere la vastità della vita in tutte le sue sfumature, con la sua straordinaria bellezza, i suoi dolori e le sue gioie. Potete avere lauree e titoli accademici, e trovare un ottimo lavoro; e poi? A che serve tutto questo se strada facendo la vostra mente si offusca, si logora, si instupidisce? Non dovreste cercare di scoprire il senso della vita adesso che siete giovani? E non è forse quella la vera funzione dell’educazione, ossia di coltivare in voi l’intelligenza che cercherà di trovare la risposta a tutti questi problemi? Sapete cos’è l’intelligenza? È la capacità di pensare liberamente, senza paure, senza formule, che ci permette di cominciare a scoprire autonomamente ciò che è reale, ciò che è vero; ma se siete spaventati, non sarete mai intelligenti.
Se siete spaventati, non sarete mai intelligenti.
Qualunque forma di ambizione, spirituale o terrena, alimenta l’ansia, la paura; ecco perché l’ambizione non aiuta a far sviluppare una mente che sia chiara, semplice, diretta, e quindi intelligente.
Sapete, è molto importante, quando si è giovani, vivere in un ambiente dove non alligni la paura. Andando avanti con gli anni, la maggior parte di noi diventa sempre più timorosa: abbiamo paura di vivere, paura di perdere il lavoro, paura della tradizione, paura di ciò che i vicini o il proprio coniuge diranno, paura della morte- La maggior parte di noi ha paura, in una forma o nell’altra; e dove è presente la paura, non c’è intelligenza.
E non è forse possibile per tutti, da giovani, vivere in un ambiente dove non si respiri la paura, bensì la libertà — libertà non di fare ciò che si vuole, ma di comprendere il processo del vivere nella sua interezza? La vita e in realtà bellissima, non è quella brutta cosa a cui noi l’abbiamo ridotta; e se ne può apprezzare la ricchezza, la profondità, la straordinaria bellezza solo quando ci si ribella contro tutto — contro la religione organizzata, contro la tradizione, contro il marcio della società attuale — scoprendo autonomamente, in quanto singoli esseri umani, ciò che è vero.
Non imitazione, ma scoperta: questa è l’educazione.

 

PERPLESSITA' SULLA "PRIMA" DELL'EDIPO TIRANNO A GENOVA

Ho assistito ieri sera alla “prima” genovese dell’Edipo tiranno, andata in scena venerdì 9 novembre al Teatro della Corte per la regia di Marco Sciaccaluga. Pubblico importante, volti noti, moltissimi studenti con i loro docenti. Tutti in attesa fiduciosa e grata di vedere rappresentata quella che, da Aristotele in poi, è stata definita la più perfetta delle tragedie greche. All’indomani dello spettacolo, permane nella mente e nel cuore un retrogusto amaro. Non tanto, ovviamente, per la sconvolgente esperienza di Edipo, che ci scava e ci interroga nel profondo sin dal tempo dei nostri primi studi al Liceo, sommuovendo cielo e terra in un intreccio cosmico di errore, verità e dolore; ma per la delusione di aver assistito a una pièce nata vecchia, impropria e inadeguata rispetto alle altezze vertiginose del capolavoro sofocleo. E’ stata scelta la traduzione di Edoardo Sanguineti. Decisione nobile, in astratto, quella di rendere omaggio al grande poeta e critico genovese, di cui personalmente mi vanto di essere stato allievo devoto. Spirito geniale e dissacrante, sin dal tempo dell’antologia dei Novissimi e della neoavanguardia del “Gruppo 63”. Ma correva il 1980 quando Sanguineti produsse il suo Edipo Tiranno, in una versione provocatoria, giustamente irritante, uno schiaffo in faccia alla normalità espressiva e politica che teneva avvitata l’Italia. Era l’anno d’incubazione del Pentapartito (DC, PSI, PLI, PRI, PSDI), l’anno della strage di Bologna, del PCI di Berlinguer, dell’inizio delle trasmissioni di Canale 5 e del “Nome della Rosa” di Umberto Eco. Riproporre oggi, dopo 32 anni, quel testo irto di contorsioni pronominali e deserto di congiuntivi mi è parsa, nel concreto, un’offesa sia all’intelligenza degli spettatori sia addirittura allo spirito ribelle sanguinetiano, che sapeva come l’avanguardia sia l’antitesi dell’arte museale, e vada usata come lanciafiamme nell’ora e nel tempo richiesti. Ebbene, ieri sera ho percepito a livello linguistico la tristezza dell’anacronismo. L’uomo - e la storia in cui egli brancola - sono pur sempre palus putredinis (“Laborintus” 1956), ma gli strumenti per raccontarla devono essere diversi, nel 2012, e attingere, innanzitutto, alla severità della parola classica e ai canoni fondamentali del linguaggio tragico. La scenografia mi ha lasciato non meno perplesso. Non me ne sfuggono, certamente, i risvolti simbolici e filosofici, ma ne respingo le finalità regressive, metamorfiche all’indietro, che tramutano ben presto la terribile vicenda di Edipo e della sua stirpe nel fallito tentativo di una comunità di primati antropomorfi, o di primitivi delle caverne, di emergere alla luce di una superiore forma di umanità. Voglio dire precisamente che la scena rappresenta un paesaggio cavernicolo che può evocare sia la preistoria sia un’area zoologica per scimmie di grosse dimensioni: non a caso la scabra collinetta è sormontata da ramificazioni spoglie, simili a quelle su cui si baloccano i macachi. La solennità della tragedia viene in tal modo completamente tradita. Il sipario si apre e si chiude su un paesaggio da Isola dei Famosi, ove i protagonisti si muovono rozzamente intrecciando le loro storie: nessuna traccia di regalità e di altezza. Chiaro che in tal modo anche la catastrofe risulta sminuita, quasi annullata, derubricata a incidente biologico, per quanto sciagurato. Altra osservazione: pare che la scena sia stata semplicemente traslata da un altro palcoscenico in cui si reciti Aspettando Godot. Semplicemente e puramente. Niente rocca cadmea, niente mura di palazzi, niente trono reale, nessun abito che distingua la regina dall’ancella, la principessa dalla serva. Solo il paesaggio nudo, scabro, abiotico di una Tebe resa invivibile dalla maledizione che vi grava, equiparata evidentemente a un deserto esistenziale in cui chi si aspetta non arriva, perché non esiste. Ma Sofocle è un autore profondamente religioso. Lo spessore della divinità qui è assente – o presente solo nominalmente. Manca anche il respiro della città, la voce vibrante dei vecchi di Tebe. Ridurre il Coro alla sola presenza del pur efficacissimo Eros Pagni (il migliore in assoluto) significa amputare la tragedia di un suo elemento centrale e fondamentalissimo. Appare coerente (in negativo), a questo punto, la riduzione dei personaggi regali a un livello popolaresco, sia in termini gestuali che tonali ed espressivi: lo stonato stile sanguinetiano (con tutti i pregi storici che gli vanno riconosciuti) non ha risuonato, come poteva essere, straniante e remoto, ma è parso adeguarsi anch’esso alla mediocrità dei personaggi, come un registro espressivo approssimativo e faticoso in bocca a dei semplici. Paradossalmente, il merito maggiore va, tra gli attori, ai comprimari (a parte l’ottimo Eros Pagni), cioè a coloro il cui ruolo umile si è trovato spontaneamente in piena consonanza con il milieu di questa versione dell’”Edipo tiranno”: in primis i convincenti “Servo di Laio” e “Messaggero di Corinto”, rispettivamente Roberto Alighieri e Massimo Cagnina. Persino Tiresia risulta sfasato, più simile a un moderno Mago Otelma che non all’austero, infallibile profeta cieco che tiene testa ai sovrani con la sua arte divinatoria. Certamente sarebbe ingiusto e falso non riconoscere dei meriti a questa fatica di Sciaccaluga; ma rimane più forte l’impressione che, alla resa dei conti, sia stata la grandezza assoluta di Sofocle, più che i meriti della regia e degli attori, a salvare lo spettacolo, cui è mancato, in ultima analisi, il coraggio della vera novità intrecciata al rispetto dei valori tragici. La bella presenza in teatro di Sergio Cofferati – giovane sindacalista più che trentenne quando Sanguineti traduceva Sofocle – mi ha dato l’evidenza plastica di una pièce con l’orologio fermo a quella data.

                                                                                        Andrea Del Ponte

VICE VERSA. OPINIONE POSITIVA DI UNA STUDENTESSA LICEALE

   Edipo Tiranno non è una tragedia greca; depennatelo dai libri, raschiatelo via dai cartelloni, dalle locandine, estirpatelo dal vostro giardino botanico di nozioni formulari. E’ un’atavica pittura rupestre, un linguaggio pre-verbale di una civiltà non ancora coagulata, che coniuga il suo alfabeto di impulsi sempre al perfetto gnomico. Nella regia di Marco Sciaccaluga tutto è sentenza, a partire dalla scenografia (di Jean-Marc Stehlé e Catherine Rankl): un pingue albero della vita klimtiano le cui radici penzolano come corde di impiccati sopra ad una caverna misteriosa e misterica, dentro cui i personaggi entrano a turno in un rito di iniziazione perpetuo, dal quale non escono trasfigurati e sublimati, ma sacrificati al dubbio. Le coordinate metodologiche del regista orbitano attorno ad un imperativo assoluto: espellere la grecità. Edipo (Nicola Pannelli) annusa ferinamente il palcoscenico, si scontra con una natura marcescente, sgranocchiata e masticata dalla peste come gli abitanti di Tebe, istallati sulla scena in un macabro presepe silente, con Orietta Notari al centro, come una Madonna esiziale che culla un cartoccio di cenci. Edipo pretende la conoscenza, la invoca con i singhiozzi acidi di un Gong, ma quando la verità si libera dalla gola dell’indovino Tiresia (Federico Vanni) –più simile a Bukowski che ad un veggente ellenico- la ripudia con sdegno. Lui, il τύραννος liberale, l’uomo che è stato in grado di decriptare l’indovinello della Sfinge salvando i suoi concittadini, non può essere la metastasi cancerosa della città. Lo sgocciolare degli eventi successivi invece comporrà la pozzanghera limacciosa della sua colpa, ed Edipo, per non specchiarvi il suo volto di parricida e consorte incestuoso della madre, si caverà gli occhi, cucendo le palpebre su un mondo in cui la colpa è vivere.
   La recitazione di Federica Granata (Giocasta) è magistrale: rende il suo corpo una palude di umori (la Palus Putredinis sanguinetiana) nella quale Edipo si immerge per berne il coraggio termale. Il suo corpo da Sibilla cumana, da maga Circe imbruttita dall’incesto diventa il “tiranno estetico” della scena. Il Coro (assemblato a collage nella monolitica figura di Eros Pagni) segue le direttive registiche di Marco Sciaccaluga di “non essere fastoso, né saggio” giacché la voce è quella dei contadini, un silenzio degli innocenti amplificato da microfoni intestini. Non si impone con la macchinosa sontuosità tragico-alfieriana che ci aspetteremmo, ma come un pastore in balia dei giochi di colpe della nemesi aristocratica.
   Di fronte all’Edipo Tiranno, il pubblico genovese si trova nelle stesse condizioni di una platea greca resa onnisciente dal prologo; la storia è conosciuta, essendo divenuta ormai una citazione popolare quasi favolistica (anche attraverso il riconoscimento di pulsioni edipiche comuni al genere umano, retaggio della psicanalisi freudiana). E forse proprio per questo la fruizione è più complessa, a causa della nostra mentalità romanzesca avvezza ad un processo archeologico di scoperta progressiva dell’intreccio. Emblematico per suffragare la mia tesi è stato il colloquio origliato, alla fine dell’intervallo, dalle voci albagiose di due ingioiellate signore, che hanno squittito sentenziose: “Dai, torniamo dentro a vedere quando si acceca”, calpestando nel contempo i rimasugli delle loro sigarette e le scorie delle sinapsi narcotizzate dall’ozio. Invece, non essendoci una trama giallistica con un finale a sorpresa, l’attenzione avrebbe potuto e dovuto concedersi il lusso di sminuzzare i dettagli scenografici e testuali. A partire dall’ossimoro dell’anemica ma sanguigna traduzione di Edoardo Sanguineti. Il suo testo è un crogiolo di infiniti narrativi, riduce la grammatica ad una sentenza sacrale, quasi monosillabica, elidendo il superfluo, il guscio teatrale barocco e pretenzioso cui gli allestimenti moderni ci hanno abituati. Sottopone l’opera ad una dieta sintattica, e proprio tra le ossa di quel corpo anoressico riusciamo ad intravedere il nocciolo primigenio dell’uomo. Come disse il grande poeta genovese in un’intervista del 2010 a Fabio Garetta: “Sapere bene come scrivere male, che agli occhi della gente può apparire come una mancanza di stile, di eleganza, è un modo di cercare di dire la verità”.
   Gli attori sembrano quasi imparare a parlare sul palcoscenico, scoprendo una lingua interiore obliata dalle sovrastrutture contemporanee. E proprio in quegli organi dimenticati si annida il tumore della ὕβρις, di un peccato originale preesistente rispetto a quello dell’Eva biblica, inciso sui cromosomi della specie come un tatuaggio atavico. L’interrogativo morale permane sulla pelle delle generazioni umane come una cicatrice angosciante: se l’innocenza è una colpa, la colpa può essere innocente?

                                           Chiara Portesine
                             (III liceo classico “A.D’Oria” di Genova)
 

BENEDETTO XVI ISTITUISCE LA PONTIFICIA ACCADEMIA DI LATINITA'

10 novembre 2012 SANTA SEDE 

     Con una lettera apostolica in forma di 'motu proprio', Benedetto XVI ha istituito la Pontificia Accademia della Latinità. Al tempo stesso il Papa ha dichiarato estinta la fondazione 'Latinitas' che fu istituita nel 1976 da Paolo VI. "La lingua latina - sottolinea nella sua lettera apostolica Joseph Ratzinger - è sempre stata tenuta in altissima considerazione dalla Chiesa Cattolica e dai Romani Pontefici, i quali ne hanno assiduamente promosso la conoscenza e la diffusione, avendone fatto la propria lingua, capace di trasmettere universalmente il messaggio del Vangelo, come già autorevolmente affermato dalla Costituzione Apostolica Veterum Sapientia del mio predecessore, il beato Giovanni XXIII. In realtà, sin dalla Pentecoste, la Chiesa ha parlato e ha pregato in tutte le lingue degli uomini". Tuttavia, "le comunità cristiane dei primi secoli usarono ampiamente il greco e il latino, lingue di comunicazione universale del mondo in cui vivevano, grazie alle quali la novità della Parola di Cristo incontrava l'eredità della cultura ellenistico-romana. Dopo la scomparsa dell'Impero Romano d'Occidente, la Chiesa di Roma non solo continuò ad avvalersi della lingua latina, ma se ne fece in certo modo custode e promotrice, sia in ambito teologico e liturgico, sia in quello della formazione e della trasmissione del sapere". Anche ai nostri tempi, osserva ancora il Papa nella sua lettera apostolica, "la conoscenza della lingua e della cultura latina risulta quanto mai necessaria per lo studio delle fonti a cui attingono, tra le altre, numerose discipline ecclesiastiche quali, ad esempio, la Teologia, la Liturgia, la Patristica ed il Diritto Canonico, come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II". Inoltre, in latino "sono redatti, proprio per evidenziare l'indole universale della Chiesa, i libri liturgici del Rito romano, i più importanti documenti del Magistero pontificio e gli atti ufficiali più solenni dei Romani Pontefici". Tuttavia, "nella cultura contemporanea si nota, nel contesto di un generalizzato affievolimento degli studi umanistici, il pericolo di una conoscenza sempre più superficiale della lingua latina, riscontrabile anche nell'ambito degli studi filosofici e teologici dei futuri sacerdoti". Appare perciò "urgente sostenere l'impegno per una maggiore conoscenza e un più competente uso della lingua latina, tanto nell'ambito ecclesiale, quanto nel più vasto mondo della cultura". È proprio per "dare rilievo e risonanza a tale sforzo" e "valorizzare il ricco e multiforme patrimonio della civiltà latina" che viene istituita la Pontificia Accademia di Latinità, dipendente dal Pontificio Consiglio della Cultura, retta da un presidente coadiuvato da un segretario nominati dal Papa e da un Consiglio Accademico. Primo presidente dell'Accademia è stato nominato Ivano Dionigi, rettore dell'università di Bologna.

 

 

Gli studenti di un liceo austriaco e di un altro del Liechtenstein sostengono l’esame di latino in Vaticano potendo consultare per telefono vescovi e cardinali


ANDREA TORNIELLI
Città del Vaticano
 

 

Un esame di latino piuttosto particolare, quello che gli studenti di due licei verranno a sostenere domani in Vaticano potendosi avvalere di uno strumento solitamente bandito da qualsiasi esame: il telefono cellulare. La curiosa notizia è stata messa in pagina questo pomeriggio da «L’Osservatore Romano». La prova pubblica, intitolata con chiaro riferimento natalizio «Puer natus est» vedrà impegnati gli studenti del liceo privato austriaco «Sacré Coeur Bregenz» e del liceo «Formatio» del Liechtenstein. L’esame di terrà al Museo gregoriano profano dei Musei Vaticani.

 

Gli studenti, individualmente o in coppia, svolgeranno l’esame di latino, che sarà diviso in due parti. Dovranno innanzitutto tradurre testi liturgici sul tema del Natale. Quindi successivamente dovranno rispondere a domande sulla Chiesa. La notizia che ha dell’incredibile riguarda l’uso del cellulare, ammesso e anzi praticamente obbligatorio. Nel corso della prova, infatti, gli studenti alle prese con le domande sulla Chiesa potranno avvalersi «di uno speciale aiuto chiamando, via telefonino, alte personalità in Vaticano, in Austria e in altri Paesi».

 

«L’Osservatore Romano» fa qualche nome: «Ricordiamo il cardinale Giovanni Lajolo, presidente emerito del Governatorato, il vescovo Josef Clemens, segretario del Pontificio Consiglio per i Laici, monsignor Waldemar Turek, della Segreteria di Stato, e Flaminia Giovanelli, sottosegretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. E dal canto loro anche i suggeritori potranno rivolgere domande ai ragazzi sul Natale e sulla Chiesa cattolica».

 

Insomma, agli studenti, oltre che essere consentito l’uso del telefonino, saranno forniti anche i numeri di telefono di vescovi e cardinali pronti ad aiutarli. «Lo scopo di questo examen publicum Vaticanum – si legge nel quotidiano della Santa Sede – è quello di riconoscere e valorizzare sia il ruolo storico della lingua latina nello sviluppo delle lingue europee, sia il ruolo della Chiesa cattolica nella preservazione della lingua latina. Contestualmente, mediante questa pubblica iniziativa, si intende promuovere l’insegnamento del latino nei licei, e la comprensione della messa in latino da parte di tutti i fedeli».

 

Anche se in realtà quasi più nessuno Oltretevere è in grado di parlarla correntemente, la lingua latina per il Vaticano non è morta. Un apposito ufficio della Santa Sede continua ad aggiornare il lessico, componendo neologismi che gli antichi romani e gli antichi cristiani non conoscevano, per poter tradurre le encicliche e i documenti papali.

 

È accaduto anche per l’enciclica sociale di Benedetto XVI, Caritas in veritate, pubblicata nel luglio di due anni fa, che nella sua versione latina ha presentato più di una difficoltà ai traduttori, alle prese con i vocaboli riguardanti la crisi economica e la globalizzazione. Così delocalizzazione è stato tradotto «delocalizatio», mentre liberalizzazione è diventata «plenior libertatis». La disoccupazione è «operis vacatio», la sotto-occupazione «operis subvacatio» e la denatalità «natorum imminuitio».

 

Con «fontes alterius generis» si è sono rese le fonti alternative, mentre le risorse energetiche non rinnovabili sono diventate «fontes energiae qui non renovantur». Tra i termini più usati c'è globalizatio (globalizzazione), parola che non esiste nel latino classico ma che è costruita su globus.

L'armosta Monti

    Le opinioni negative circa il governo Monti recentemente espresse dal prof. Scialfa sulle colonne del Secolo XIX sono ampiamente condivisibili. Quale classicista e uomo di scuola vorrei corroborarle con altre considerazioni.
   Non c’è dubbio che la costruzione dell'Unione Europea, soggiogata dal Moloch della moneta e della finanza, ha gravemente tradito gli ideali che l'ispirarono. A questo proposito, impressionante è rileggere, a distanza di 71 anni, quel Manifesto di Ventotene che ne fu, si può dire, all'origine. Vi si dice fra l'altro che le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per le forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. E Altiero Spinelli, con Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, paventava, nel caso di una vittoria finale della Germania nazista, una rinnovata divisione dell'umanità in Spartiati ed Iloti.  Esattamente quanto sta succedendo ai nostri giorni, in cui si accetta supinamente che nobili nazioni europee afflitte da difficolta' economiche siano spregiativamente definiti "maiali" (PIGS) dai portavoce del potere finanziario, e che i loro popoli gemano sotto il peso di incomprensibili guerre tra i potenti dei mercati. Tra di esse, la Grecia e l'Italia, a cui pure l'Europa è debitrice (propriamente!) delle altissime forme di civiltà, arte e progresso che ancora la caratterizzano. Ma ogni giorno, sulla stampa degli Spartiati del Nord Europa, si stillano parole di disprezzo per gli Iloti del Sud, sulla base di un giudizio meramente materialistico, economico.
     Di più e di peggio: già Platone nella Repubblica avvertiva che il predominio dell'homo oeconomicus porta direttamente all'oligarchia dei gruppi di potere dominanti. E anche noi stiamo assistendo a un pauroso rarefarsi della democrazia, a tutti i livelli, in quanto quegli stessi gruppi di potere stanno facendo passare l'idea che si tratti di una forma di governo dannosa, perché poco garante di competenza e di efficienza sul piano economico!  Ebbene, quando Sparta, abbattuta con le armi la libera Atene, prese a sostituire ovunque le vinte democrazie con delle oligarchie, inviava nelle poleis dei propri uomini, detti "armosti", con il compito di formare governi amici non eletti. Francamente, non vedo molta differenza tra gli armosti e il personaggio di Monti, tecnocrate con enormi ruoli di potere nei massimi centri finanziari mondiali, collocato a Roma senza mandato popolare, su pressione della Troika, per governare l'Italia secondo le indicazioni e nell'interesse della Troika stessa, non certo degli Italiani; così come parallelamente nel novembre 2011 fu installato ad Atene Papademos, uomo dell'alta finanza caro a Bruxelles. E anche quando scocca necessariamente l'ora delle elezioni (ieri in Grecia e in Spagna, domani in Italia), tale è l'impatto intimidatorio e terroristico dell'alta finanza e dei suoi fiancheggiatori sulle drammatiche conseguenze di un voto "sbagliato",  che i popoli - per ora - si piegano alle indicazioni delle oligarchie.
    Ultima considerazione: il più evidente e clamoroso segno dell'eclissi della democrazia è l'invisibilità e l'incomprensibile linguaggio di chi attualmente ci domina e ci controlla, da oscure stanze del potere. Nessuno, tra i comuni cittadini, comprende i tecnicismi dei quotidiani bollettini di guerra economica né le ragioni né gli attori della guerra stessa. Un nemico invisibile ci sottrae beni, gioia e sicurezza.
    La situazione è ben descritta da due vicende, una immaginaria e una reale.
   Platone, sempre nella Repubblica, racconta la storia dell'anello di Gige: un anello che, a girarlo nel dito, rendeva invisibile chi lo portava. Gige, un povero pastore, quando lo trovò e ne capì le proprietà, sfruttò l'occasione per compiere le più nefande azioni senza essere visto, sino a prendere tutto il potere dello Stato.
  Seconda vicenda:  a fine '700 il filosofo e giurista Jeremy Bentham inventò il Panoptikon ("che fa vedere tutto"), un edificio semicircolare fatto in modo che un unico osservatore al centro ne possa controllare gli abitanti, i quali non possono né vedere lui né vedersi fra loro, con la conseguenza della sensazione opprimente di una totale nudità e impotenza sotto gli occhi del guardiano. Ne derivava l'abitudine a una totale e disciplinata sottomissione. Per inciso, il Panoptikon era un carcere di massima sicurezza.
   Ecco dove stanno a mio parere i nodi del problema. La cui soluzione sta nell'abbattimento contemporaneo non solo del governo Monti, ma di tutti gli armosti europei, profittando del fatto che oggi, grazie ai social network e alla rapidità dei  mezzi di comunicazione, i muri immaginati da Bentham per impedire ai carcerati di parlarsi non sono più possibili.

          L'IMPORTANZA DEL GRECO E DEL LATINO NELLA FORMAZIONE CULTURALE DEI GIOVANI
   

Telìos omologò, "Perfettamente d'accordo" -  come dicono oggi i Greci - sulla linea di grande apprezzamento del politismòs classico che ormai giungono da più parti anche sulla stampa nazionale.

   E comincio a ragionare sul mio apprezzamento: l'aggettivo tèleios significa "perfetto" perché è etimologicamente legato al sostantivo telos, che indica il "compimento", il "termine". D'altra parte, l'italiano "perfetto", sia come aggettivo che come sostantivo (il tempo verbale) deriva dal latino per-ficio, che significa "compiere un'azione fino in fondo", con quel prefisso per- di valore completivo e resultativo che fa sì che nel sistema verbale latino si distingua fra "tempi dell'infectum" (dell'azione non compiuta: “bevevo”) e "tempi del perfectum" (dell'azione compiuta: “avevo bevuto”). Noto come il greco sappia essere una lingua ancora più sintetica del latino, in quanto per esprimere lo stesso concetto di "perfezione" usa unicamente una radice (tel-) anziché il sostegno del preverbo. E' chiaro che il greco ha saputo condensare gran parte delle idee umane in entità linguistiche minime ma di massima penetrazione, dal perenne valore archetipico.
      E proprio mentre sto scrivendo (tempo dell’infectum !) mi accorgo che sto continuamente attingendo a quel pozzo delle meraviglie che sono le lingue classiche: arche-tipico… “Arché” è l’inizio, il principio. En arché  Dio creò i cieli e la terra (Genesi). En arché c’era il Logos, e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio (Vangelo di Giovanni). E per dire “antichi” il greco ha almeno due parole: archàioi e palaiòi. Con una differenza sostanziale, però, legata proprio a arché. Gli archàioi sono i padri fondatori, gli iniziatori della stirpe e della civiltà, coloro che hanno acceso la prima scintilla di quella fiaccola che è diventata tradizione; i palaiòi invece sono semplicemente gli uomini del passato, in senso temporale.
    E la fantasia mi fa correre al Paleozoico, finito 250 milioni di anni fa. Ma accidenti, ho dovuto usare la parola zoè, “vita”, che mi ha fatto pensare tante volte a quanto sarebbe bello l’antiquato nome Zoe, se si pensasse alla sua origine. Oggi c’è però chi l’ha ingentilito secondo la pronuncia moderna: Zoì. E mi torna in mente il memorabile incipit del romanzo “Un uomo” di Oriana Fallaci: “Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi ! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano…” E’ il racconto dei funerali di Alekos Panagulis, simbolo della resistenza al regime autoritario dei Colonnelli, morto in circostanze oscure nel 1976.
   Morto…come lo diremo? Si fa presto a dire “morto”. Thanòn, ovvero un puro numero nel calcolo dei morti e dei vivi? O tethnekòs, che fa sentire la permanenza della sua memoria tra i viventi? O magari teteleutekòs, simile al nostro “defunto”(dal latino de-functus), nel senso che ha compiuto sino alla fine (de-) la sua missione su questa terra? O invece usiamo il più poetico koimethèis, alla lettera “dormiente”, in stretta connessione con “cimitero”, koimetèrion, alla lettera “dormitorio”? E se penso che il verbo koimào, oltre a “dormire”, significa anche “unirsi carnalmente”, arrivo a quel binomio Amore-Morte che è una delle principali chiavi di lettura delle letterature di tutti i tempi. E devo fermarmi, per non diventare come
   
    Ecco: il greco e il latino sono due bacchette magiche che consentono di narrare senza fine la storia del mondo e quella personale, in un intreccio spazio-temporale che è quello dell’umanità. Ma l’incantesimo non scocca se si è avari di tempo e di fatica, se seppellisci sottoterra il talento che hai ricevuto invece di farlo fruttare, se ti limiti a scorrere elenchi di parole o leggi gli autori in traduzione. Non capisci la fantastica architettura del fiocco di neve se lo schiacci fra le dita o lo fai sciogliere sulla lingua, invece di esaminare la diversità di ciascuno al microscopio. I ragazzi italiani del Ginnasio-Liceo classico hanno ancora la fortuna straordinaria di poter esercitare le loro menti sulla sintassi ricca ed elaborata di Cicerone e di Platone, di poterli leggere nella loro lingua originale: viva, vivissima. Chi ne dubita, rifletta ad esempio sul fatto che la famigerata e attualissima parola spread (in inglese to spread = “diffondersi”, “disperdersi”) viene dritta dritta dal greco, precisamente dalla radice sper- / spor- / spr- , che è la stessa del sostantivo dià-spora : la sorte che toccherà a noi europei se non ci affrettiamo a reimparare a produrre ricchezza e potenza tornando a coltivare il bello e il buono, l’ars e la sophìa.

                                                    Andrea Del Ponte
                             Vicepresidente del Centrum Latinitatis Europae
                                              

            SEGNALO UN'INTERESSANTE INIZIATIVA DI UN GRUPPO DI LATINISTI TEDESCHI : UNA "SETTIMANA LATINA" A FRISINGA (Freising, vicino a Monaco di Baviera) i primi giorni di settembre.

 

Robertus Fautoribus Latinitatis Salutem Plurimam

Septimanae Latinae nostrae appropinquant. Restant aliquot dies, quibus inscriptionem pro Septimana Latina accipi dixeramus. Hoc anno, ut iam scitis, duae fient, et Amoeneburgi apud Marburgum et Frisingae prope Monachum in Germania. Cum Septimana Latina Amoeneburgensis iam omnino plena sit, Frisingae adhuc nonnullos participes accipere possumus. Omnes ergo ii, qui desiderant Septimanae Latinae interesse, se proximis diebus inscribant oportet. Etiam Frisingae vero loci liberi iam pauci sunt. Si plura comperire voletis, adite paginam nostram interretialem, quae est haec:     www.septimanalatina.org


Optime valete!
- - - - - - - - - - - - - - - -
Dear Friends of Latin,
our European Latin Weeks come closer and there are only a few days left before the official deadline for enroling. As you know there will be two of them this year, one at Amoeneburg near Marburg and the other at Freising near Munich / Germany. The Amoeneburg Latin Week is already full but we are still able to accept some registrations for our Freising Latin Week. All of you who want to participate in a Latin Week have to register soon but even at Freising there is only a limited number of places left. If you want to know more please have a look at our web page:

http://www.septimanalatina.org
Best regards
Robertus Maier

             Pubblico un interessante articolo di  "Hampsichora Sardus" comparso il 27 giugno 2012 sulla pagina Facebook del gruppo "Latinists of the European Union Unite".

De trapezocratia

 

Dum in Europae circis folle certatur, aliud certamen merito civibus ineundum est: certamen decoris ad versus trapezocratiam. Graecia in exitiali discrimine economico versante, Hispaniae moderatoribus per parsimoniam impositam rem oeconomicam recreare conantibus, cum in Lusitania, "pensis optime domesticis perfectis", cives in dies pauperiores reperiantur, cum non pauci ex Italis in summa angustia nummaria esse in dies audiantur, universarum nationum cives follem in utramque circi partem eiectum desidiose per nonaginta minutas spectant, ceteris curis neglectis. Cui accedendum est quod Foederatarum Nationum Americae Septemtrionalis praesidens queratur de discrimine economico apud Europeos cum ipse hoc crimine insimulandus sit. Obama putat nunc suos cives affici discrimine quod ex Europa oritur. Aristoteles iure aiebat ad cuiusve rei exitus intelligendos, rei ipsam originem perquirendam esse; ergo ubi, quando, quo pacto a discrimine oeconomico nos vorari coepti sumus? Nisi fallor, si fides tribuenda est nuntiis actorum diurnorum, tribus saltem annis discrimen apud F.N.A.S. cives incipit exardescere cum illi, domui emendi causa, aes alienum fecerunt cum pecuniam creditam solvere non possent. Estne probi et intelligentis hominis grande aes alienum conflare cum solvendo non sit? Minime. Estne tamen vestra sententia magis sons civis in hunc errorem raptus an lex quae hoc sinit? Ut puto, lex et cuncti qui eam tulerint. Ergo ipsa lex insimulanda, quippe quae his moribus cives assuefecit. Agitur de modo vivendi quo aere alieno demersum esse nullo civi dedecori est...quoad iugulari coeptus sit. Hac vitae ratione cives in America utuntur, auctoribus argentariis quae sibi magnos quaestus proponunt. Curatores nummularii bene vias pecuniae noverunt! Leges sinunt argentarias magnas pecunias facere, pecunia a civibus miras per artes extorquenda. Postea, cum illius nationis cives in summa difficultate nummaria versari coeperunt, eidem Europae fidem moliti sunt. Ergo praestringendo a F.N.A.S. gubernatoribus ratio huius discriminis oeconomici mundani reposcenda est. Licentia illa insimulanda, quam verbis Graecis usurpatis trapezocratiam nuncupare possumus.

 

Lo strapotere delle banche.

Mentre negli stadi d'Europa si gioca a pallone è un'altra la partita che giustamente i cittadini dovrebbero combattere, quella per la dignità e contro lo strapotere delle banche. Mentre la Grecia si trova in una terribile crisi economica, in Spagna i politici tentano con l'austerità di ridare fiato all'economia, in Portogallo, fatti per bene i "compiti a casa", le persone si scoprono di giorno in giorno più povere, e non pochi Italiani si trovano in gravissime ristrettezze economiche, i cittadini di tutte le nazioni, messe da parte le preoccupazioni, guardano pigramente per novanta minuti il pallone scagliato in entrambe le direzioni del campo. A ciò c'è da aggiungere che il presidente degli U.S.A. si lamenta della crisi economica europea quando invece è lui a dover essere accusato di questa colpa. Egli ritiene che i suoi cittadini soffrono la crisi che a sua volta proviene dall'Europa. Aristotele diceva che per poter capire le conseguenze di qualsiasi cosa bisogna indagarne l'origine; ebbene dove, quando, come abbiamo iniziato a farci divorare dalla crisi? Se non mi sbaglio e se bisogna ancora credere ai giornali, la crisi economica è divampata almeno da tre anni tra i cittadini degli U.S.A. quando essi hanno contratto dei debiti per l'acquisto della casa pur non essendo in grado di onorarli. Ebbene è da onesta e acuta persona imbarcarsi in pesantissimi debiti quando non si è in grado di restituirli? Certo che no. E' tuttavia secondo voi più responsabile chi viene indotto a compiere quest'errore o le leggi che lo consentono? Per come la vedo, ad essere colpevole è la legge e tutti quelli che l'hanno proposta. Ordunque è proprio la legge a dover essere trascinata sul banco degli imputati in quanto che è essa ad aver abituato i cittadini a un determinato stile di vita. Mi riferisco a uno stile di vita in base al quale per nessun cittadino non è disdicevole essere sommerso dai debiti fino a quando non si inizia ad essere strangolati. Ed è questo lo stile di vita che hanno in America, sulla scia delle banche che si prefiggono di fare lauti guadagni. Gli agenti bancari sanno come fare soldi! E sono le leggi a permettere che le banche facciano enormi profitti estorcendo il denaro alla gente. Successivamente, quando i cittadini di quel paese (U.S.A.) hanno iniziato a trovarsi in gravi difficoltà economiche, sempre loro hanno intaccato il sistema creditizio europeo. Sintetizzando dunque è ai governanti degli U.S.A. che bisogna chieder conto della crisi globale. E ad essere accusata deve essere quel famigerato eccesso di libertà che con parole greche possiamo chiamare trapezocrazia.

"Non finire come la Grecia" ?!

           Il 13 giugno Filippomaria Pontani, professore di filologia classica all'Università Ca' Foscari di Venezia, ha pubblicato sul quotidiano online "Il Post" un lungo, bellissimo articolo sulle angosciose prospettive politiche e economiche che gravano sul futuro della Grecia, in attesa dell'esito delle imminenti elezioni politiche. Il Pontani, in una continua tramatura tra passato e presente, ci restituisce un'immagine autentica e rispettosa della nazione greca, indignato - come me - dei continui, rozzi appelli dei tecnocrati italiani ed europei a "non finire come la Grecia".

       Pubblico l'incipit del vibrante intervento del professor Pontani (figlio dell'illustre grecista Filippo Maria Pontani, finissimo traduttore dei lirici greci e dei più noti poeti neoellenici), seguito dal link che rinvia al resto dell'articolo.

    Mi preme ringraziare il prof. Enea Eros Barone - neo vicepresidente della Sede operativa del CLE - per avermi tempestivamente segnalato questo scritto.

In greco, a volte, le parole fanno miracoli. Quella più gettonata, e temuta, è di questi tempi il sostantivo refstòtita, derivato dal verbo reo, “scorrere”, che generazioni di ginnasiali hanno coniugato come paradigma del presente indicativo dei contratti: refstòtita è un perfetto bisenso che indica sia la “volatilità” dell’elettorato, sfuggente come una saponetta sotto gli usurati guantoni dei sondaggisti, sia la “liquidità” del contante che disperatamente manca alle casse dei cittadini e dello Stato. È sullo scheletro di questo bisenso che vorrei impostare le impressioni che seguono, tratte da un viaggio breve ma intenso nell’Ellade perduta, sospesa tra le elezioni del 6 maggio e quelle incombenti del 17 giugno: chi avrà la pazienza di leggere potrà saggiare da sé le analogie che legano i problemi qui descritti alla situazione del nostro Paese – in rispettoso omaggio a chi insiste da mesi sul fatto che «noi non siamo la Grecia»... > vai al link che segue

http://www.ilpost.it/2012/06/09/pontani-grecia/#comments

             Pubblico un recentissimo intervento, tradotto dal neogreco, del prof. Gheorghios Pavlakos, autorevole membro dell' ODEG ("Associazione per la diffusione della lingua greca", www.odeg.gr), scrittore, autore di testi per la scuola. Si tratta di acute riflessioni sul modo in cui possiamo trarre dall'antica letteratura greca degli insegnamenti fondamentali da tradurre in azione nel nostro presente.

 

  In queste ore critiche è molto importante che gettiamo uno sguardo sul Libro dei Greci, cioè sui poemi omerici, e che traiamo insegnamento, sia pure all’ultimo momento, dallo spirito dell’Odissea. Ovvero: manteniamo il nostro sangue freddo, verifichiamo di avere i nostri senso svegli e le nostre antenne attive, e non lasciamoci trascinare dall’ira e dal furore che ci possiede, così da diventare preda dei Proci contemporanei.
   Quando Odisseo arriva a Itaca, il suo più grande desiderio è quello di riprendere il suo mondo, il mondo che gli hanno rubato. A dispetto del suo ardente desiderio, mantiene l’anonimato e, trasformato in mendicante dalla dea Atena, va nella reggia così da verificare la situazione e da ricevere le informazioni che vuole, sopportando pazientemente le offese e gli scherni dei Proci. Perché quel che gli interessa è il conseguimento dell’obiettivo e non la sterile contrapposizione. Anche per questa ragione è il prediletto della dea Atena, la dea che rappresenta l’intelligenza di Zeus, la Sapienza, la strategia del pensiero e della guerra; della dea che studia il nemico e lo combatte con le sue stesse armi.
   Ma quando giunge il momento in cui li ha tutti messi alle strette, disarmati, raccolti in un’unica sala, mentre lui è completamente armato, allora manifesta la sua collera. E non mostra pietà, perché il suo mondo è la sua vita, e lui se l’è costruito con il suo sudore, è la sua Patria, che i Proci hanno saccheggiato facendone mercato, anche per colpa dell’ospitalità della sua famiglia, che onorava Zeus Ospitale.
   Il suo avversario più forte è ANTI-NOO. Il suo nome parla da solo. E l’Anti-Intelligenza (nous), è quello che a noi fanno ora, è il sistema col quale confondono lo stato delle cose e la realtà, cosicché non riflettiamo più in modo limpido e loro ci criticano. E’ il pericolo più grande, che causa l’assoggettamento e la schiavitù dell’uomo.
   Dopo di lui c’è EURI-MACO. E’ colui che combatte (màchetai) con ogni sistema, con ampiezza (èuros), con ogni mezzo, il combattente astuto e privo di scrupoli.
   E poi ANFI-NOMO! Colui che distorce la legge (nomos) e l’ordine delle cose, colui che è pericoloso perché è così e nel contempo diverso (“amphì”).
    E poi AGE-LAO! Colui che eccita il popolo, che lo attira con l’aiuto di Antinoo; che lo trasforma in gregge condotto dove lui vuole.
   Nessun nome nei poemi omerici è dato a caso! Nascondono profondissimi significati e tocca a noi svelarli e farci insegnare da loro, o meglio farci ragionare.
   I nostri antenati parlano, i nostri antenati ci dicono che cosa fare, ci dicono come combattere, di dicono come scuoterci di dosso il giogo. Basta, diamo loro ascolto! E’ Antinoo l’obiettivo del primo colpo mortale di Odisseo. E’ lui che deve morire per primo. Per questo, alla larga dalla propaganda dei mass media! E lo ammazza scagliandogli la freccia nella gola, l’organo della parola, cioè lo strumento di comunicazione che usa contro l’intelligenza degli uomini!

                                                                                                         GHEORGHIOS  PAVLAKOS
 

Latino, la difesa viene d’Oltralpe

dal quotidiano L’Avvenire, 12 giugno 2012

«Non imparare il latino significa disimparare le lingue moderne; organizzare la sparizione degli studi che permettevano di mantenere un buon legame della lingua e cultura latina nei ragazzi europei, vuol dire organizzare la cancellazione della lingua e della cultura europee». Il j’accuse arriva d’Oltralpe e da nomi prestigiosi, accademici e letterati che vedono nell’allontanamento della lingua dei romani dai curriculum scolastici un imbarbarimento che sta impoverendo la cultura e la scuola. L’emergenza è ormai decennale: due "big" dell’intellighenzia europea come il matematico Laurent Lafforgue e l’oncologo Lucien Israël nel 2000 avevano pubblicato un articolo su Le Monde chiedendo «il latino obbligatorio negli studi letterari europei».

E invece… Invece capita, in Francia, che l’idioma di Cicerone sia scomparso dall’iter universitario di lettere moderne. E addirittura che nell’impervio esame dell’aggregation per l’insegnamento delle materie letterarie il candidato possa scegliere tra latino e greco. In alternativa. Anche da noi la situazione non è rosea: in molti licei scientifici gli studenti si vantano di non dover spremere le meningi su Tacito o Cesare. Un’emergenza che ha spinto in questi giorni l’autorevolissima rivista dei gesuiti Civiltà cattolica a ritenere «opportuno che nella scuola italiana si continui a educare gli studenti alle lingue classiche (greco e latino), senza le quali sarebbe superficiale l’accesso alla necessaria conoscenza del patrimonio della cultura dell’Occidente». Infatti, denuncia padre Giandomenico Mucci sul quindicinale della Compagnia di Gesù, «l’opzionalità dello studio delle lingue classiche nei licei dispone alla scomparsa del greco e del latino nella scuola italiana». Ma ora qualcuno sta provando a raddrizzare la situazione. Ci tenta, dal 2008, l’Associazione per il latino nelle letterature europee (Alle), promossa da alcuni docenti parigini (www.sitealle.com).

Organizzatori, a oggi, di 18 conferenze con altrettanti specialisti (diritto, scienze sociali, teologia, vita della Chiesa, poesia…) chiamati a raccolta per rinverdire il contatto tra il latino e il nostro parlare, scrivere e pensare contemporaneo. Personalità come il filosofo Rémi Brague, il poeta Yves Bonnefoy, lo storico del pensiero Pierre Manent. Obiettivo? Fare in modo che «ogni lingua sia suscettibile di mantenere un’esperienza e una sensibilità umana singolare, in modo da non parlare tutti la stessa lingua, un globish adattato ai bisogni mondializzati».

Lo scrivono Cécilia Suzzoni e Hubert Aupetit nell’introduzione a Sans le latin… (Mille et une nuits), la raccolta delle conferenze promosse dall’Alle, da poco nelle librerie transalpine (qui pubblichiamo stralci degli interventi di alcuni dei personaggi citati). Insomma, vi è chi si oppone a quei «professori che hanno preso l’abitudine di insegnare un latino light e a quegli esaminatori che ormai danno il voto ai compiti in classe con un semplice cool».

Una situazione riscontrabile in varie zone del Vecchio Continente: «È legittimo e ragionevole che la scuola assicuri la salvaguardia del latino invece di allinearsi all’ideologia post-grammaticale del "simpatico", del cool che viene distillato ogni sera ad nauseam dalle serie televisive e dai talk show». In epoca di globalizzazione va riscoperta quella che il filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz definiva la lingua durabilis in aeternitatem e che ha permesso «l’espandersi di una cultura intellettuale e di un’identità letteraria senza frontiere». Infatti, «senza questo substrato comune» rappresentato dal latino, sostengono gli agguerriti "prof pro-latino", «i grandi luoghi e nomi della letteratura europea, Petrarca, Dante, Montaigne, Shakespeare, Cervantes, vengono minacciati dall’incomprensione». Come raddrizzare la barra? Dalla Francia arriva un allarme: «Gli studi letterari sono stati per decenni sottomessi a protocolli molto pericolosi perché in mano a epigoni zelanti, imperfettamente informati, delle rivoluzioni delle teorie letterarie.

Crisi aggravata dall’inflazione metodologica, dal marketing incontrollabile, dalla moltiplicazione dei compendi». E nella Chiesa il latino gode (ancora) di intoccabile stima? La risposta sembra negativa se si dà ascolto a monsignor Waldemar Turek, addetto alle lettere latine in Segreteria di Stato: «Vi sono ragioni per essere seriamente preoccupati per il futuro di questa lingua, che fino a oggi ha permesso di conservare un tesoro di incomparabile valore umano e dottrinale. Si ha l’impressione che la tendenza generale sia di ridurre l’uso del latino nella Chiesa, dove un numero sempre minore di religiosi e laici riesce a utilizzare il sermo latinus>. Di fatto l’editio typica dei documenti (come le encicliche, ndr) rappresenta sempre più raramente la base di studio per la riflessione teologica».

ECCO IL TESTO, NELLA VERSIONE ORIGINALE TEDESCA E IN TRADUZIONE ITALIANA, DELLA POTENTE POESIA CIVILE SCRITTA NEL MAGGIO 2012  DA  Günter Grass PER FAR SALIRE LA VOCE DI PROTESTA CONTRO L'ASSERVIMENTO DELLA CULLA DEL PENSIERO OCCIDENTALE DA PARTE DELL'OTTUSA AVIDITA' DEI MERCATI FINANZIARI.

                   Europas Schande

         Ein Gedicht von Günter Grass (Mai 2012)

Dem Chaos nah, weil dem Markt nicht gerecht,
bist fern Du dem Land, das die Wiege Dir lieh.

Was mit der Seele gesucht, gefunden Dir galt,
wird abgetan nun, unter Schrottwert taxiert.

Als Schuldner nackt an den Pranger gestellt, leidet ein Land,
dem Dank zu schulden Dir Redensart war.

Zur Armut verurteiltes Land, dessen Reichtum
gepflegt Museen schmückt: von Dir gehütete Beute.

Die mit der Waffen Gewalt das inselgesegnete Land
heimgesucht, trugen zur Uniform Hölderlin im Tornister.

Kaum noch geduldetes Land, dessen Obristen von Dir
einst als Bündnispartner geduldet wurden.

Rechtloses Land, dem der Rechthaber Macht
den Gürtel enger und enger schnallt.

Dir trotzend trägt Antigone Schwarz und landesweit
kleidet Trauer das Volk, dessen Gast Du gewesen.

Außer Landes jedoch hat dem Krösus verwandtes Gefolge
alles, was gülden glänzt gehortet in Deinen Tresoren.

Sauf endlich, sauf! schreien der Kommissare Claqueure,
doch zornig gibt Sokrates Dir den Becher randvoll zurück.

Verfluchen im Chor, was eigen Dir ist, werden die Götter,
deren Olymp zu enteignen Dein Wille verlangt.

Geistlos verkümmern wirst Du ohne das Land,
dessen Geist Dich, Europa, erdachte.

  ______________________________

                     Traduzione in italiano                          

                    IGNOMINIA D’EUROPA

Prossima al caos, perché non all’altezza dei mercati,
lontana sei dalla terra che a te prestò la culla.

Quello che, con l’anima hai cercato e consideravi tuo retaggio,
ora viene tolto di mezzo, alla stregua di un rottame.

Messo nudo alla gogna come debitore, soffre un Paese
al quale dover riconoscenza era per te luogo comune.

Paese condannato alla miseria, la cui ricchezza,
ben curata, orna i musei: preda che tu sorvegli.

Coloro che, in divisa, con la violenza delle armi funestarono il Paese
ebbro d’isole, tenevano Hölderlin nello zaino.

Paese a stento tollerato, di cui un tempo tollerasti
i colonnelli in veste di alleati.

Paese privo di diritti, al quale un potere che i diritti impone,
stringe sempre più la cintola.

Sfidandoti, veste di nero Antigone e dovunque lutto
ammanta il popolo di cui tu fosti ospite.

Eppure fuori dai confini il codazzo dei seguaci di Creso
ha ammassato tutto ciò che d’oro luccica nelle tue casseforti.

Trangugia infine, butta giù! gridano i claqueur dei Commissari,
ma Socrate ti restituisce irato il calice colmo fino all’orlo.

Malediranno in coro gli Dei ciò che possiedi,
quando il tuo volere esige di spossessare il loro Olimpo.

Priva di spirito deperirai senza il Paese
il cui spirito, Europa, ti ha inventata.

______________________________

  Versione in greco moderno : vai sul sito seguente:

      http://alkioni.blogspot.it/2012/05/blog-post_27.html

                     

                  

                                              GINNASIO – LICEO         

       

Con quanta rapidità ci siamo convertiti alla silenziosa eutanasia del nobile e antico termine “ginnasio”! Eppure molti di noi in gioventù sono stati “ginnasiali” e per lunghi anni di carriera, fino all’anno scorso, hanno insegnato “al ginnasio”.      Dovremmo avere tutti maturato un forte e profondo legame affettivo, prima ancora che culturale, con questa parola che, a partire dalla Legge Casati (1859), ha sempre designato in Italia il biennio della scuola superiore a indirizzo classico (come noto, nel 1940 la legge Bottai istituì poi la scuola media unica, rinominando le prime tre classi ginnasiali: ma sono sopravvissute fino al 2010 le anacronistiche definizioni di IV e V ginnasio). Alle soglie dell’unità d’Italia Casati aveva voluto infatti dotare il Paese di un sistema scolastico che potesse aspirare alla grandezza di quello tedesco, che da secoli vantava un Gymnasium in cui si studiava il greco e che aveva forgiato generazioni di uomini colti e preparati. Tuttora in Austria e in Germania il Gymnasium è una realtà vivissima che offre ai ragazzi dagli 11 ai 18 anni la miglior preparazione possibile, orientata al proseguimento degli studi a livello accademico.      Lasciare per strada il termine “ginnasio”, come se fosse un’appendice vecchia e inutile, è un errore. Non si tratta certo di una questione puramente nominalistica, quasi si trattasse di un pennacchio superfluo. La potenza evocativa che emana è antichissima e intensa. Il gymnasion era uno dei grandi simboli della civiltà greca: un crocevia di esperienze in cui l’attività fisica dei giovani s’intrecciava al dialogo con gli adulti su tutte le discipline più formative, in preparazione alla vita da cittadini. Similmente, il “ginnasio” modernamente inteso è una palestra educativa e conoscitiva in cui con fatica di esercizio, impegno mnemonico, attenzione e costanza, il “ginnasiale” si prepara a spiccare il volo  intellettuale, nel Liceo che lo attende, a diretto contatto con gli autori e con il pensiero umanistico e scientifico. E “classico” è il Liceo in quanto sa trasmettere valori esemplari, paradigmatici, perennemente validi, “classici” appunto.    Si dirà: ma i tempi cambiano, è giunta l’ora di mettere in soffitta certe anticaglie, di guardar oltre. Anzi, proprio il Governo, con la riforma Gelmini, ha rivisto e aggiornato i vecchi licei, istituendone sei – diversi ovviamente nel nome e nei contenuti – ma tutti uguali quanto alla durata: quinquennali, dal primo al quinto liceo.  E quindi, anche nel Classico, si entra in prima e si esce in quinta.     Invece no: il D.P.R. n. 89 del 15 marzo 2010, a firma Napolitano, decreta che il primo biennio “mantiene la denominazione di ginnasio”. Lo puoi leggere in allegato. Per fortuna, la legge difende il liceo classico, almeno formalmente, dall’omologazione agli altri licei, sottolineandone l’innegabile peculiarità di carattere storico, culturale, formativo.    Alcuni Licei classici italiani hanno frettolosamente liquidato la denominazione di “Ginnasio”, altri – per buona sorte la maggioranza - continuano invece a fregiarsene. Credo che dobbiamo a tutti i nostri studenti che hanno scelto la difficile strada degli studi umanistici l’onore di poter continuare a dirsi “ginnasiali” (di prima e seconda) e “liceali” (di prima, seconda e terza). Tu cosa pensi?                                                                                                      

Aver abolito (da parte solo di alcuni licei, però, mi pare proprio che sia una minoranza) il termine di Ginnasio equivale, per me, a recarsi una mattina nella piazza del paese e vedere che, il mattino presto, esecutori di un'ordinanza comunale hanno segato l'albero secolare che la ornava, sotto il quale intere generazioni si erano sedute all'ombra a riposare e a parlare. Ora non c'è più. Al suo posto, un'inutile segatura, il sole che picchia duro e la gente con le mani dietro la schiena, che borbotta e  se ne va.
 

                                                                                          IL  SIMPOSIO

   Il vino (oinos in greco, donde il prefisso eno-) è stato legato dai greci al culto di Dioniso, il dio dell’ebbrezza e della musica, che travolge la razionalità e sconvolge le regole. Come Demetra ha donato all’uomo la conoscenza del grano, con il quale si fa il pane, così Dioniso gli ha insegnato l’arte di coltivare la vite e di produrre il vino, che porta allegria e che fa dimenticare gli affanni.
   Nel mondo greco il vino si collega strettamente alla pratica del simposio, termine che deriva da syn + pino = “bere assieme”. Il simposio innanzitutto è riservato al sesso maschile: le donne per bene ne sono escluse.  E’ una riunione di uomini accomunati dall’elevato ceto sociale, dal simile stile di vita, dalla concordanza di vedute politiche, che s’incontrano per rinsaldare la loro amicizia e per confermare la loro reciproca appartenenza al gruppo.
   Il numero dei partecipanti è limitato: vanno solitamente da nove a tre, cioè tra il numero delle Muse e quello delle Grazie (come dice Varrone, pur riferendosi al convito romano ) e stanno sdraiati a due a due su dei letti leggermente inclinati (klinai) disposti ai lati della stanza, tenendo libero il braccio destro. Tra loro si trovano ragazze disponibili (etere) e flautiste, per allietare la serata – infatti il simposio deve iniziare appena fa buio, dopo la cena. Al centro della stanza sta l’oggetto fondamentale del simposio: un grande cratere, nel quale viene compiuta l’operazione di tagliare il vino con l’acqua. Bere vino puro è considerata infatti  un’usanza barbarica: un saggio criterio di misura consiglia di unire 3 parti d’acqua a 2 di vino, oppure 2:1. Il rapporto al 50%, di 1:1 è già considerato eccessivo e sconveniente. 
     Va subito sfatato un luogo comune, cioè che il simposio sia una banale occasione per far baldoria, fare sesso e ubriacarsi. In realtà il simposio, specialmente in età arcaica, è un rituale dalle forti componenti religiose, in cui un gruppo di giovani uomini riaffermano il legame fra di loro benedicendolo nel nome delle forze più grandi che la vita e la natura ci offrono, tra cui domina  l’eros, che è “ebbrezza, sopraffazione della ragione da parte di una « pazzia divina » che strappa l'uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine”.
    Il carattere religioso del simposio è testimoniato dal fatto che comincia con una triplice libagione: agli dèi celesti e a Zeus Olimpio; agli spiriti degli eroi; a Zeus salvatore. Dioniso, il dio in nome del quale si celebra il simposio, è rappresentato dal vino, anzi “è” il vino,  che è la bevanda inebriante e liberatrice cui tutti i partecipanti attingono. In questo senso il simposio greco richiama alla mente, in chiave pagana, l’agape cristiana, il banchetto comunitario.
   Il carattere religioso del simposio ne spiega e ne caratterizza diversi rituali: l’abluzione preliminare delle mani e dei piedi, come simbolo di purezza prima dell’incontro con il dio; il fatto di portare sul capo una corona di foglie o di fiori in stretta relazione con Dioniso: soprattutto edera e mirto, piante care al dio, e al collo ghirlande di fiori, che si dice erompano dalla terra al passaggio dl dio. L’aria è aromatizzata da profumi, bruciati in appositi incensieri: sono tutti particolari che ci riportano alla mente simili riti induisti ancora praticati nell’India odierna, come quelli in onore del dio Soma, l’equivalente indiano di Dioniso. Segue una triplice libagione: agli dèi celesti e a Zeus Olimpio; agli spiriti degli eroi; a Zeus salvatore. Dioniso, il dio in nome del quale si celebra il simposio, è rappresentato dal vino, anzi “è” il vino,  che è la bevanda inebriante e liberatrice cui tutti i partecipanti fra  poco attingeranno, ma della quale all’inizio si fa un sacrificio, libandola agli dèi.   In questo senso il simposio greco richiama alla mente, in chiave pagana, l’agape cristiana, il banchetto comunitario   Esiste inoltre una sorta di sacerdote del simposio: è il “re del convito” o simposiarca, cioè un simposiasta cui i compagni assegnano il compito di regolare con autorità le attività del simposio, stabilendone le norme, come ad esempio di quanto va tagliato il vino e quanto bisogna bere. Il simposiarca poteva anche imporre a qualcuno prove particolari, come quella di bere apneustì o  amustì (senza prendere fiato, con una sola lunga sorsata).
  Tra le klinai e i tavolini d’appoggio vanno e vengono dei ragazzini (paides) di bell’aspetto, che utilizzando una brocca o un mestolo attingono dal cratere il vino servendolo ai convitati in bellissime coppe decorate: sono le famose ceramiche attiche a figure rosse che ammiriamo nei musei di tutta Europa, chiamate, a seconda della forma, kylikes, kantharoi o skyphoi. Le nostre informazioni sul simposio provengono largamente proprio dalle immagini vascolari, che con la loro bellezza e le loro tematiche ci fanno capire che quelle coppe non erano certo concepite come semplici oggetti d’uso o accessori della tavola, ma fungevano soprattutto da potenti mediatori e diffusori di valori etici e culturali incentrati  sulla superiorità della way of life ateniese.
      Segue una serie di brindisi: una coppa passa di mano in mano e ciascuno beve alla salute di tutti; si fanno brindisi individuali in onore del compagno preferito; si brinda con la coppa dell’amore, vuotandola e poi passandola di nuovo piena al compagno cui si rivolge l’omaggio, che a sua volta la vuota. L’amore è infatti una componente essenziale del simposio: può essere sia omoerotico (tra i compagni del simposio, o tra un simposiasta e un efebo) che eterosessuale (con le etere, le flautiste o le danzatrici). Ma, come insegna Platone nel Fedro e nel Simposio, tale omoerotismo può e deve spingersi dall’aspetto fisico a quello spirituale, intellettuale, tra due uomini di profondo sentire.
   Componente fondamentale del simposio  è la poesia, unita al canto: durante il simposio si cantano liriche con l’accompagnamento di una cetra o del flauto. Gli autori, come Alceo, cantano le proprie liriche, seguite dai commenti degli altri partecipanti.  Gli argomenti sono tutti quelli che interessano ai compagni del simposio: l’amore, il vino, la lotta politica, le tematiche esistenziali, come l’invecchiamento e la morte, che debbono indurre a godere maggiormente dell’ora presente. C’era l’uso di far girare tra i simposiasti un ramo di mirto: chi lo teneva in mano doveva intonare un canto per il diletto degli altri.
     C’era ampio spazio anche per le conversazioni e le discussioni su ogni argomento, divertente o serio, di tipo politico e filosofico, come nel Simposio di Platone, che consiste in una discussione tra i sette partecipanti al convito su quale sia la reale identità di Eros.
     Tra i giochi e i passatempi, caratteristico era quello del cottabo:
Con le gocce residue di vino rimaste nella coppa, ciascun simposiasta tentava di colpire un piatto oscillante collocato a una certa distanza in cima a un’asta. Il lancio andava fatto secondo una regola precisa, cioè senza utilizzare il braccio ma unicamente con un movimento del polso. Si vinceva se, centrando il piattino, lo si faceva cadere su un piatto metallico più grande collocato a metà dell’asta, producendo un suono armonioso.   
   Alla fine del simposio poteva seguire il Komos, cioè un’allegra baldoria per le strade della città accompagnata da canti in onore di Dioniso. Capitava che gruppi di giovani simposiasti ebbri irrompessero nelle case altrui dove si stava pure svolgendo un simposio, portando una ventata di follia e di sregolatezza. Nel Simposio di Platone, dopo che Socrate ha finito il suo discorso e Aristofane sta per replicare, fa la sua comparsa Alcibiade ubriaco, sostenuto da una flautista; appena entrato comincia ad incoronare Agatone con nastri e corone di fiori. Vedendo Socrate, e dopo aver ornato anche lui, invita tutti a bere da una tazza enorme; allora Erissimaco afferma che nel loro simposio si era convenuto di limitare le bevute e di fare, invece, a turno l'elogio di Eros. Alcibiade rifiuta di mettersi in gara e propone di fare un elogio a Socrate: inizia così, per bocca di Alcibiade, una delle più belle descrizioni del fascino intellettuale del grande filosofo.
                         A. Del Ponte