MATURITA' 2017: Latino alla seconda prova scritta

 LEZIONE PUBBLICA DI PREPARAZIONE ALLA PROVA SCRITTA DI VERSIONE DAL GRECO

La traduzione dal greco all'esame di maturità 2016 aggiunge alla prova una specificità culturale intrinseca alle finalità del Liceo classico, l'unico in cui si studia l'antica lingua di Atene. In questa pagina presenteremo di volta in volta, da ora in avanti, proposte di testi giudicati ottimali per la preparazione. Per qualsiasi domanda o scambio di idee sui testi, il contatto è via mail (septimius@alice.it) 

PROPOSTA N° 1

LE FORME DI GOVERNO DI UNO STATO (Polibio)

Ὅτι δ´ ἀληθές ἐστι τὸ λεγόμενον ἐκ τούτων συμφανές. Οὔτε γὰρ πᾶσαν δήπου μοναρχίαν εὐθέως βασιλείαν ῥητέον, ἀλλὰ μόνην τὴν ἐξ ἑκόντων συγχωρουμένην καὶ τῇ γνώμῃ τὸ πλεῖον ἢ φόβῳ καὶ βίᾳ κυβερνωμένην· οὐδὲ μὴν πᾶσαν ὀλιγαρχίαν ἀριστοκρατίαν νομιστέον, ἀλλὰ ταύτην, ἥτις ἂν κατ´ ἐκλογὴν ὑπὸ τῶν δικαιοτάτων καὶ φρονιμωτάτων ἀνδρῶν βραβεύηται. Παραπλησίως οὐδὲ δημοκρατίαν, ἐν ᾗ πᾶν πλῆθος κύριόν ἐστι ποιεῖν ὅ, τι ποτ´ ἂν αὐτὸ βουληθῇ καὶ πρόθηται, παρὰ δ´ ᾧ πάτριόν ἐστι καὶ σύνηθες θεοὺς σέβεσθαι, γονεῖς θεραπεύειν, πρεσβυτέρους αἰδεῖσθαι, νόμοις πείθεσθαι, παρὰ τοῖς τοιούτοις συστήμασιν ὅταν τὸ τοῖς πλείοσι δόξαν νικᾷ, τοῦτο καλεῖν δεῖ δημοκρατίαν. Διὸ καὶ γένη μὲν ἓξ εἶναι ῥητέον πολιτειῶν, τρία μὲν ἃ πάντες θρυλοῦσι καὶ νῦν προείρηται, τρία δὲ τὰ τούτοις συμφυῆ, λέγω δὲ μοναρχίαν, ὀλιγαρχίαν, ὀχλοκρατίαν.

PROPOSTA N. 2

  FILINO E FABIO, DUE STORICI POCO OBIETTIVI (Polibio)

   Οὐχ ἧττον δὲ τῶν προειρημένων παρωξύνθην ἐπιστῆσαι τούτῳ τῷ πολέμῳ καὶ διὰ τὸ τοὺς ἐμπειρότατα δοκοῦντας γράφειν ὑπὲρ αὐτοῦ, Φιλῖνον καὶ Φάβιον, μὴ δεόντως ἡμῖν ἀπηγγελκέναι τὴν ἀλήθειαν. Ἑκόντας μὲν οὖν ἐψεῦσθαι τοὺς ἄνδρας οὐχ ὑπολαμβάνω, στοχαζόμενος ἐκ τοῦ βίου καὶ τῆς αἱρέσεως αὐτῶν· δοκοῦσι δέ μοι πεπονθέναι τι παραπλήσιον τοῖς ἐρῶσι. Διὰ γὰρ τὴν αἵρεσιν καὶ τὴν ὅλην εὔνοιαν Φιλίνῳ μὲν πάντα δοκοῦσιν οἱ Καρχηδόνιοι πεπρᾶχθαι φρονίμως, καλῶς, ἀνδρωδῶς, οἱ δὲ Ῥωμαῖοι τἀναντία, Φαβίῳ δὲ τοὔμπαλιν τούτων. Ἐν μὲν οὖν τῷ λοιπῷ βίῳ τὴν τοιαύτην ἐπιείκειαν ἴσως οὐκ ἄν τις ἐκβάλλοι· καὶ γὰρ φιλόφιλον εἶναι δεῖ τὸν ἀγαθὸν ἄνδρα καὶ φιλόπατριν καὶ συμμισεῖν τοῖς φίλοις τοὺς ἐχθροὺς καὶ συναγαπᾶν τοὺς φίλους· ὅταν δὲ τὸ τῆς ἱστορίας ἦθος ἀναλαμβάνῃ τις, ἐπιλαθέσθαι χρὴ πάντων τῶν τοιούτων καὶ πολλάκις μὲν εὐλογεῖν καὶ κοσμεῖν τοῖς μεγίστοις ἐπαίνοις τοὺς ἐχθρούς, ὅταν αἱ πράξεις ἀπαιτῶσι τοῦτο, πολλάκις δ´ ἐλέγχειν καὶ ψέγειν ἐπονειδίστως τοὺς ἀναγκαιοτάτους, ὅταν αἱ τῶν ἐπιτηδευμάτων ἁμαρτίαι τοῦθ´ ὑποδεικνύωσιν.

 Ὧσπερ γὰρ ζῴου τῶν ὄψεων ἀφαιρεθεισῶν ἀχρειοῦται τὸ ὅλον, οὕτως ἐξ ἱστορίας ἀναιρεθείσης τῆς ἀληθείας τὸ καταλειπόμενον αὐτῆς ἀνωφελὲς γίνεται διήγημα. διόπερ οὔτε τῶν φίλων κατηγορεῖν οὔτε τοὺς ἐχθροὺς ἐπαινεῖν ὀκνητέον, οὔτε δὲ τοὺς αὐτοὺς ψέγειν, ποτὲ δ´ ἐγκωμιάζειν εὐλαβητέον, ἐπειδὴ τοὺς ἐν πράγμασιν ἀναστρεφομένους οὔτ´ εὐστοχεῖν αἰεὶ δυνατὸν οὔθ´ ἁμαρτάνειν συνεχῶς εἰκός. Ἀποστάντας οὖν τῶν πραττόντων αὐτοῖς τοῖς πραττομένοις ἐφαρμοστέον τὰς πρεπούσας ἀποφάσεις καὶ διαλήψεις ἐν τοῖς ὑπομνήμασιν.

Il brano della seconda prova di esame: ANALISI E COMMENTO STILISTICO

 

[Tacito, Annales 6,50]

 

 Iam Tiberium corpus, iam vires, nondum dissimulatio deserebat: idem animi rigor; sermone ac vultu intentus quaesita interdum comitate quamvis manifestam defectionem tegebat. Mutatisque saepius locis tandem apud promunturium Miseni consedit in villa cui L. Lucullus quondam dominus. Illic eum adpropinquare supremis tali modo compertum. Erat medicus arte insignis, nomine Charicles, non quidem regere valetudines principis solitus, consilii tamen copiam praebere. Is velut propria ad negotia digrediens et per speciem officii manum complexus pulsum venarum attigit. Neque fefellit: nam Tiberius, incertum an offensus tantoque magis iram premens, instaurari epulas iubet discumbitque ultra solitum, quasi honori abeuntis amici tribueret. Charicles tamen labi spiritum nec ultra biduum duraturum Macroni firmavit. Inde cuncta conloquiis inter praesentis, nuntiis apud legatos et exercitus festinabantur. Septimum decimum kal. Aprilis interclusa anima creditus est mortalitatem explevisse; et multo gratantum concursu ad capienda imperii primordia G. Caesar egrediebatur, cum repente adfertur redire Tiberio vocem ac visus vocarique qui recreandae defectioni cibum adferrent. Pavor hinc in omnis, et ceteri passim dispergi, se quisque maestum aut nescium fingere; Caesar in silentium fixus a summa spe novissima expectabat. Macro intrepidus opprimi senem iniectu multae vestis iubet discedique ab limine. Sic Tiberius finivit octavo et septuagesimo aetatis anno.

 

 

       Caratteristiche fondamentali dello stile tacitiano sono la brevitas e l’inconcinnitas.

La brevitas, ovvero la concisione, è realizzata attraverso un continuo uso dell’ellissi non solo del verbo sum, ma proprio di tutto ciò di cui si può fare a meno: proposizioni brevi o brevissime, stile epigrafico e sentenzioso, parole isolate e come scolpite per arricchirle di contenuto e dilatarle nell’immaginazione del lettore.
L’inconcinnitas è il rifiuto dei parallelismi e dell’espressione armoniosa e simmetrica, a favore di uno stile rotto e spezzato, ricco di sorprese e caratterizzato dalla variatio.
La brevitas e l’inconcinnitas sono due tratti distintivi dello stile “moderno”, prima sallustiano e poi imperiale, in antitesi allo stile ciceroniano, caratterizzato da un ampio e  ordinato sviluppo ipotattico della frase, ricca di parallelismi e di ornatus.

 

   Vedi alcuni esempi nel brano d’esame:

 

idem animi rigor = “identica l’inflessibilità dell’animo” > frase ellittica e brevitas
Neque fefellit: = “ma non riuscì a ingannarlo:” > ellissi del dimostrativo eum; partenza ex abrupto della frase, che risulta isolata e spezzata.
inter praesentis…apud legatos et exercitus >  variatio fra inter e apud.
Pavor hinc in omnis, et ceteri passim dispergi, se quisque maestum aut nescium fingere = « Ne venne a tutti spavento, e gli altri si disperdevano qua e là, ciascuno si fingeva mortificato o all’oscuro » > ellissi iniziale di un verbo di moto che regga in omnis = in omnes (nota l’arcaismo del’uscita –is al posto di –es. Variatio tra ceteri e quisque; brevitas ottenuta mediante gli infiniti storico-narrativi dispergi e fingere, che regge un’oggettiva ellittica di esse.

 

   Sia la brevitas che l’inconcinnitas, unite a un lessico mai ovvio e venato di arcaismi, fanno parte della famosa gravitas tacitiana (in greco σεμνότης), ovvero la predilezione per uno stile severo, che non mira al diletto del lettore, ma a coinvolgerlo profondamente nella riflessione ora commossa ora sdegnata sui fatti della Storia. E’ uno stile aristocratico e perciò difficile, che non scende al livello del vulgus ma chiede profonda attenzione per essere ben compreso. In questo è simile alla severità e alla difficoltà di Tucidide; mentre si accosta a Sallustio (modello di Tacito) per la brevità sentenziosa e per il gusto dell’imprevisto.

    Alla gravitas stilistica si accompagnano il severo moralismo e l’accentuato pessimismo, comuni sia a Sallustio che a Tacito. Attraverso il suo stile tagliente, Tacito riesce a portare alla luce gli aspetti più reconditi e inconfessabili dell’animo umano, quasi sempre negativi, lungo una scala che va dalla “normale” viltà dei comportamenti quotidiani alle nefandezze del potere imperiale.

    Nel testo d’esame tutto ciò si vede molto bene: il protagonista è il vecchio Tiberio, giunto al termine dei suoi giorni (siamo nel 37 d.C.); lo affiancano, come “deuteragonista” e “tritagonista”, il medico Caricle e il prefetto del pretorio Macrone (nominato da Tiberio nel 31 al posto di Seiano, perché “era peggiore di lui”, dice altrove Tacito); attorno a questo trio sta tutto un “coro” di personaggi secondari, formato dai cortigiani dell’imperatore morente; in retroscena, come persona muta, sta il 25enne Gaio Cesare Germanico, detto Caligola, oscillante tra il trionfo e la disperazione.

    Uso questi termini teatrali non a caso, perché la storiografia tacitiana è fortemente tragica e drammatica, amante delle tinte forti e del pittoresco. La Storia è da lui amaramente rappresentata come il palcoscenico su cui agisce il Male, invano contrastato da singoli atti di eroica resistenza. Tacito è un vero maestro nell’arte di indagare nel profondo la psicologia dei caratteri, che mette implacabilmente a nudo. In questo brano – come in tanti altri degli Annales e delle Historiae – viene messa allo scoperto la finzione, in tutte le sue varianti: artificio, inganno, ipocrisia, pavidità. Quanto più originale, soggettivo, audace è lo stile, tanto più risulta evidente per contrasto la meschinità o la malvagità degli uomini che a vario titolo agiscono nella “tragedia umana” messa in scena da Tacito. Vedi ad esempio i passi seguenti:

 

Iam Tiberium corpus, iam vires, nondum dissimulatio deserebat: idem animi rigor; sermone ac vultu intentus quaesita interdum comitate quamvis manifestam defectionem tegebat = “Abbandonava Tiberio, ormai, il corpo, lo abbandonavano le forze, ma non ancora la capacità di fingere: identica l’inflessibilità dell’animo; con pieno autocontrollo della parola e dell’espressione, mediante un’allegria talvolta forzata cercava di nascondere l’esaurimento, sebbene fosse evidente” > il corpo è in disfacimento, ma la mente è ancora lucida e in grado di continuare l’ipocrita “recita” con la quale da sempre Tiberio aveva mascherato i suoi reali e perversi pensieri. Nota la potenza plastica dei due verbi (deserebat, tegebat) posti in fondo alle frasi; la teatralità della prima frase, studiatamente rallentata; la brevitas della seconda; la densità compatta della terza.
Charicles…per speciem officii manum complexus pulsum venarum attigit = “Caricle…avendogli preso la mano con il pretesto dell’omaggio, gli tastò il polso” > anche il medico ha la sua parte in questa “tragedia (non commedia) degli inganni”. Finge di voler omaggiare l’imperatore prendendogli la mano per baciarla, ma il suo intento è ben diverso. Agli atti non corrispondono i pensieri. Nota la predilezione di Tacito per le formule insolite e penetranti (per speciem officii ) al posto di locuzioni usurate e banali (cum + congiuntivo?).
nam Tiberius, incertum an offensus tantoque magis iram premens… = “…infatti Tiberio, non si sa se perché offeso e tanto più reprimendo la sua collera…” > Tacito scandaglia l’intimo del vecchio imperatore, mostrandoci alla sua maniera ellittica, con una climax, il crescere dentro di lui dell’irritazione.
instaurari epulas iubet discumbitque ultra solitum, quasi honori abeuntis amici tribueret = “fa riprendere il banchetto e sta a tavola più del consueto, come se volesse così rendere onore all’amico in partenza” > nota la malizia, tipica di Tacito, di quel quasi…tribueret , una comparativa ipotetica con la quale smaschera l’ipocrisia di Tiberio. Corrisponde al greco ὡς + participio. Simile è il precedente velut propria ad negotia digrediens = “quasi dovesse partire per degli affari personali”, dove velut + participio sta in variatio con quasi tribueret.
Pavor hinc in omnis, et ceteri passim dispergi, se quisque maestum aut nescium fingere : il coro dei cortigiani vili, abili solo nell’ossequio e nella menzogna. Affresco magnifico per potenza di caratterizzazione psicologica, in climax discendente: prima uno sguardo generale (in omnis = in omnes, in + accusativo dipendente da un sottinteso descendit), poi un’osservazione distintiva (ceteri in contrapposizione alla solitudine di Caligola, descritta più avanti), infine vengono inchiodati dall’obiettivo tacitiano i singoli cortigiani (quisque), su cui si abbatte il disprezzo dello storico.
Caesar in silentium fixus a summa spe novissima expectabat = “Caligola, immobile e silenzioso, precipitato dalla più alta speranza, attendeva l’estremo castigo” > magnifica scena, in cui Tacito ci mostra avvenuto il rapidissimo trapasso nell’animo di Caligola dalla gioia più profonda per la creduta morte di Tiberio a una costernazione che lo paralizza, quando si è venuti a sapere che al vecchio imperatore “erano tornati la voce e la vista”. Non solo grande pennellata psicologica, ma anche straordinario mix di brevitas e di inconcinnitas: a summa spe farebbe aspettare un ad + accusativo, che non c’è; si urtano i due superlativi, con la forte pausa dopo spe; si urtano pure i due complementi di moto a luogo (in silentium) e di moto da luogo (a summa spe), in variatio.

 

Un’altra caratteristica dello stile  tacitiano è dunque l’antitesi, che in questo brano si trova ovunque, più nei concetti e nelle idee che nelle parole. Il suo culmine sta nella frase cum repente adfertur redire Tiberio vocem ac visus vocarique qui recreandae defectioni cibum adferrent = “quando d’un tratto viene portata la notizia che a Tiberio sta tornando la voce e la vista e che chiede che qualcuno gli porti da mangiare per riprendersi dallo svenimento” > qui nota il cum inversum, cioè quella speciale costruzione temporale in cui il concetto espresso dalla subordinata ha una maggiore importanza di quello espresso dalla reggente. Importante, qui come in tutto il brano, l’uso dei presenti storici attualizzanti; i quali però, avendo valore comunque storico, poi chiedono la consecutio corrispondente. Inoltre è notevole l’uso del dativo del gerundivo con valore finale.

 

 

S’intende che tutto quanto si è detto qui circa lo stile tacitiano vale solo per le Historiae e ancor più per gli Annales. Nell’Agricola e nella Germania si trovano segni della straordinaria originalità stilistica tacitiana, ma in modo ancora non continuativo e non così tipico, Semmai nell’Agricola (specialmente nel discorso di Càlgaco) possiamo riconoscere le tracce dell’enfasi e del colore retorico usato dai declamatori contemporanei nelle scuole di eloquenza.

      Per quanto riguarda il Dialogus de oratoribus, c’è stata al proposito una “questione” circa la sua datazione e perfino la sua attribuzione, perché il suo stile si differenzia completamente da quello delle opere storiografiche: è sostanzialmente di tipo neociceroniano.  Opera giovanile, di un Tacito che non ha ancora maturato uno stile personale? Oppure opera di un Tacito adulto e disilluso? Oppure un’opera non tacitiana ma di scuola quintilianea?

   Gli studiosi sono in generale giunti alla conclusione che il Dialogus

1.sia opera di Tacito, perché ne riflette la personalità nostalgica, severa nei giudizi, sferzante e carica di dignità;

2.non debba essere usato come una prova della graduale evoluzione dello stile tacitiano (quasi che ci trovassimo di fronte a un Tacito ancora “immaturo“), perché nell’antichità lo stile s’accompagna sempre al genere letterario: e il Dialogus è un saggio letterario impostato in forma dialogica, su argomenti di retorica, e dunque il suo modello di riferimento non poteva che essere Cicerone (come nel De Oratore);

3.inoltre è significativa la  dedica a Fabio Giusto, che è quasi sicuramente il Lucio Fabio Giusto che fu console nel 102 ed era amico di Plinio il Giovane. E’ quindi abbastanza probabile che il Dialogus sia successivo al 96, cioè alla pubblicazione della Institutio oratoria di Quintiliano (qualcuno parla addirittura di una risposta di Tacito al grande contemporaneo).

LATINO SCRITTO ALL'ESAME DI MATURITA' 2015

    Per aiutare gli studenti ad affrontare al meglio la prova scritta di traduzione dal LATINO all'esame di maturità, il CLE di Genova organizza un incontro gratuito (a offerta libera all'uscita) per tutti i maturandi dei Licei classici della città. 

GIOVEDI' 11 GIUGNO 2015 alle ore 17.00 nella sede dell'Associazione STUDIO STORIE corso Solferino 8/3 (Circonvalmonte). Durata: 1 ora e mezza circa.

un team di professori, guidati dal prof. DEL PONTE, presenterà e discuterà con gli studenti un passo di autore nuovo (fuori circuito), appositamente  scelto in quanto del tutto compatibile con i requisiti richiesti nella seconda prova. Ai partecipanti verranno rinfrescate le più necessarie nozioni tecniche per svolgere con successo il lavoro di traduzione. Per ulteriori info, mail a septimius@alice.it

 

 

       

IL TESTO DELLA PROVA DI VERSIONE 2013

QUINTILIANO, Institutio oratoria X, 1, 45 ss.

Sed nunc genera ipsa lectionum, quae praecipue convenire intendentibus ut oratores fiant existimem, persequor. Igitur, ut Aratus ab Iove incipiendum putat, ita nos rite coepturi ab Homero videmur. Hic enim, quemadmodum ex Oceano dicit ipse omnium amnium fontiumque cursus initium capere, omnibus eloquentiae partibus exemplum et ortum dedit. Hunc nemo in magnis rebus sublimitate, in parvis proprietate superaverit. Idem laetus ac pressus, iucundus et gravis, tum copia tum brevitate mirabilis, nec poetica modo sed oratoria virtute eminentissimus. Nam ut de laudibus, exhortationibus, consolationibus taceam, nonne vel nonus liber, quo missa ad Achillem legatio continetur, vel in primo inter duces illa contentio vel dictae in secundo sententiae omnes litium ac consiliorum explicant artes? Adfectus quidem vel illos mites vel hos concitatos, nemo erit tam indoctus, qui non in sua potestate hunc auctorem habuisse fateatur. Age vero, non utriusque operis sui ingressu in paucissimis versibus legem prooemiorum non dico servavit sed constituit? Nam benevolum auditorem invocatione dearum, quas praesidere vatibus creditum est, et intentum proposita rerum magnitudine et docilem summa celeriter comprehensa facit. Narrare vero quis brevius quam qui mortem nuntiat Patrocli, quis significantius potest quam qui Curetum Aetolorumque proelium exponit?“

TRADUZIONE

Ma ora mi dedico proprio ai generi di lettura, che secondo me si addicono in particolare a coloro che cercano di diventare oratori. Pertanto, come Arato ritiene che si debba cominciare da Giove, così noi secondo la tradizione partiremo da Omero. Infatti, come lui dice che dall’Oceano ha inizio il corso dei fiumi e delle fonti, [così] egli ha dato il modello e l’avvio a tutte le parti dell’eloquenza. Nessuno può superarlo per sublimità nelle cose grandi e nelle piccole in precisione. Egli è contemporaneamente prolisso e conciso, scherzoso e serio, ammirevole ora per l’abbondanza ora per la brevità, e si distingue moltissimo non solo per la capacità poetica ma anche per quella oratoria. Infatti, anche tralasciando gli elogi, le esortazioni, le consolazioni, non è forse vero che il nono libro, nel quale si trova l’ambasceria inviata ad Achille, o nel primo libro la famosa contesa tra i comandanti, oppure le sentenze espresse nel secondo libro, espongono tutte le tecniche delle orazioni giudiziarie e di quelle deliberative? E nessuno sarà tanto ignorante, da non ammettere che questo autore non abbia sotto controllo persino i sentimenti, sia quelli tranquilli sia quelli appassionati. Ma allora, non è forse vero che all’inizio di entrambi i poemi con pochissimi versi egli ha, non dico rispettato, ma fondato la regola dei proemi? Infatti, egli rende ben disposto l’ascoltatore invocando le divinità che si ritiene che proteggano i poeti, e lo rende attento proponendogli la grandiosità dei fatti, e disponibile all’ascolto, riassumendo in breve la materia. Ma chi potrebbe raccontare più concisamente di colui che riferisce la morte di Patroclo, chi più chiaramente di chi espone la battaglia tra gli Etoli e i Cureti?

 

IL TESTO DEL BRANO DI VERSIONE DELLA PROVA DI GRECO 2012

TRADUZIONE

   Non si deve disdegnare puerilmente lo studio degli esseri viventi meno illustri: infatti in tutte le realtà naturali è insito qualcosa di meraviglioso; e come si narra che Eraclito parlò rivolto agli ospiti che volevano incontrarlo, ma che quando lo videro, entrando, scaldarsi vicino al forno di cucina, si fermarono in piedi (li esortò infatti a entrare con fiducia: anche lì infatti c'erano gli dèi), così bisogna accostarsi alla ricerca intorno a ciascuno degli esseri viventi senza imbarazzo, considerando che in tutti c'è qualcosa di naturale e di bello. Tutto ciò infatti è presente, e in massimo grado, nelle opere della natura non per un caso ma per un fine: e il fine in vista del quale ogni essere è costituito o esiste, ha occupato la regione del bello. Ma se qualcuno è giunto  a credere che non valga la pena lo studio degli altri esseri viventi, nello stesso modo bisogna che pensi anche di quello su se stesso: perché non è possibile vedere senza molto disgusto di quali cose sia costituita la specie degli uomini, come ad esempio sangue, carni, ossa, vene e simili parti. Ugualmente bisogna che colui che tratta di qualsivoglia parte o elemento pensi di non dover spiegare la pura materia né di doverlo fare avendo questa come scopo, ma l'intera forma, come ad esempio si fa anche parlando di "casa", senza specificare "mattoni", "calce", "legno"; ugualmente chi tratta della natura ne deve spiegare la sintesi e l'essenza complessiva, senza limitarsi a quelle cose che non sussistono se mai vengano separate dall'entità cui appartengono.

                                                                    (trad. Andrea Del Ponte)

OSSERVAZIONI SUL TESTO

   Il brano appartiene all'opera aristotelica De partibus animalium 645 a 15.

        A una rilettura, pare molto probabile che si tratti del testo di una lezione pronunciata dallo Stagirita nel Peripato e poi messa per iscritto e rielaborata da qualcuno dei suoi studenti (forse Teofrasto? Noto è il suo affettuoso interesse per il mondo animale). A sostegno di questa tesi sta l'esame stilistico: una prosa spesso ellittica, scorciata di elementi superflui nel parlato ma che noi moderni avremmo desiderato per una miglior comprensione; altre volte (come nell'aneddoto su Eraclito) una sintassi giustappositiva, un po' faticosa, da cui proprio traspare lo sforzo dello scrivente di inserire negli argini della parola scritta il libero fluire dei pensieri del Maestro; di frequente, l'uso di termini tecnici interni alla scuola aristotelica, la cui perfetta perspicuità era ovviamente data per scontata all'interno dell'ambiente di studio del Peripato, mentre per noi la distanza sia cronologica che culturale rischia di determinare un'opacità che solo con fatica può essere non dico annullata ma almeno ridotta. Da questo punto di vista, il brano assegnato all'Esame di Stato presentava delle vette senz'altro inaccessibili a studenti anche di per sé capaci.

      Analisi lessicale

                Emergono nel testo alcune costanti lessicali interessanti per un dibattito:

1.  L'insistente presenza di verbi di "dovere". Nell 15 righe del brano compare per tre volte il verbo impersonale δει (righe 1, 5, 11) e per una χρη (riga 9). L'insistenza sul concetto del "si deve, bisogna" è molto professorale e tradisce il peso dell'autorità del Maestro. A questo ambito di certezza magistrale si devono ricondurre anche ουκ εστι...ιδειν ("non è possibile...vedere") alle righe 9-10; l'ironico avverbio παιδικως ("infantilmente") alla r. 1; il gran numero di γαρ - avverbi causali, esplicativi - che punteggiano il brano per tutta la sua estensione intendendo di volta in volta far seguire benevolmente all'affermazione di autorità la spiegazione delle sue ragioni.

 

Testo